Ma per Weiss Crouch aveva importanza: era presente quando Moncrieff era morto, insieme a Harry Kidder e a Julie Wyant. Crouch era l’unico dei tre ancora vivo, per quel che si sapeva. Perciò Weiss doveva trovarlo e, essendo Weiss, lo trovò.
La casa era una modesta fattoria ristrutturata, situata ai margini della città, non lontano dalla strada principale. Isolata in fondo a una strada tortuosa, sorgeva su un fazzoletto d’erba confinante con un campo dove un tempo si coltivavano zucche. Era un tradizionale edificio a due piani, con un portico e un dondolo dove sedersi in estate. Il dondolo scricchiolava dolcemente, mosso dalla brezza, mentre Weiss saliva i gradini del portico fino alla porta d’ingresso.
Bussò e rimase in attesa. Aveva cercato di telefonare, ma nessuno aveva risposto. Un poliziotto del posto gli aveva detto che la fattoria era disabitata ma che una persona si occupava del giardino e delle piccole riparazioni all’esterno. Quell’uomo gli aveva detto che era Crouch a pagarlo, tramite bonifico, regolarmente, e che finché riceveva i soldi, lui avrebbe svolto il lavoro.
Non venne nessuno ad aprire e Weiss cercò di girare la maniglia. Come immaginava, la porta era chiusa a chiave. Estrasse un astuccio di pelle dalla tasca interna della giacca, scelse l’utensile adatto e forzò la serratura.
Una volta dentro, si ritrovò in un soggiorno fresco, in penombra. I mobili erano ordinati e semplici: poltrone ricoperte di stoffa a fiori, divanetti, un tappeto di stoffa, un’ottomana accanto al caminetto vuoto.
Le finestre erano socchiuse e lasciavano filtrare una leggera brezza, che sollevò un po’ di polvere dal pavimento facendo pizzicare il naso di Weiss. Si udivano scricchiolii e altri piccoli suoni: forse topi nei muri.
Il vecchio istinto del poliziotto si risvegliò in Weiss, che avanzò nella casa con la massima circospezione.
Al pianterreno trovò una stanza per gli ospiti, una sala da pranzo, un salottino, una cucina con la finestra rivolta a sud, da cui entrava una luce dorata che colpiva il linoleum verde del pavimento. Agli angoli si vedevano i danni provocati dai topi, che avevano anche rosicchiato le gambe del tavolo. Aprì i mobiletti, ma non trovò cibo o altro. Udì un ronzio: si trattava del frigorifero in funzione, segno che le bollette dell’elettricità erano state pagate. Anche il frigo, però, era completamente vuoto.
Non c’era anima viva di sotto e neppure di sopra. In camera da letto le lenzuola erano pulite e in ordine, nello studio i libri erano coperti di polvere, come il computer e la scrivania. Weiss proseguì la sua ispezione con i passi felpati di un fantasma che si aggirava furtivo.
Weiss avrebbe dovuto andarsene, per la verità, se non fosse stato per quello stato d’animo risvegliato dentro di lui. Il vecchio istinto dello sbirro. Gli suggeriva di cercare ancora e così ripassò di nuovo tutte le stanze. Fu così che si accorse della botola. Si trovava nel salottino a piano terra, sotto un tappeto, e scricchiolò quando Weiss ci passò sopra. Il detective scostò il tappeto e tirò l’anello di metallo. I cardini cigolarono.
Una scala scura conduceva a una porta, che si aprì a fatica, lasciando sfuggire un refolo d’aria.
Il corpulento detective fu costretto a piegare la testa per passare. La stanza dove si ritrovò era fresca e asciutta, soprattutto molto asciutta. Scovò un interruttore e, quando le luci si accesero, capì. Le rastrelliere, le bottiglie, il termostato indicavano che si trattava di una cantina.
Ciò che spiegava lo stato di conservazione del corpo.
Dopo tutti quei mesi, l’aria asciutta di quella stanza sigillata lo aveva mummificato. Peter Crouch era uno scheletro con la pelle incartapecorita. Era incatenato, nudo e con gli arti divaricali, a una delle rastrelliere. Le costole avevano trapassato il sottile strato di pelle simile a cuoio ed era possibile distinguere anche le ossa delle mani. Ma il volto era ancora stranamente intatto, riconoscibile: gli occhi senza vita, neri e duri come sempre, la testa a pera, i pochi capelli pettinati in un brutto riporto. Solo le guance, un tempo flaccide e bianchicce, erano ora tirate e scure. Weiss pensò che fosse quella rigidità delle guance ad aver aperto le labbra di Crouch, mettendo in mostra i denti bianchi in una sorta di smorfia amara.
Ma no. Più osservava le condizioni del cadavere, più si rendeva conto che Crouch si era conservato esattamente com’era nel momento in cui era morto: con la bocca aperta per urlare.
Lo scotch aveva un buon sapore e la puttana era bella, ma Weiss si sentiva malinconico, turbato, nervoso.
Sedeva vicino alla finestra che dava sul mare, rivolto verso la stanza, con le spalle girate alla notte. Guardava la ragazza e, per qualche motivo, perfino la sua bellezza lo metteva a disagio.
Aveva i capelli rossi, come aveva chiesto, ma non del colore particolare di quelli di Julie Wyant, anche se Casey aveva fatto del suo meglio per trovargliene, in breve tempo, una dalla chioma che si avvicinasse a quella tonalità. Ma aveva il viso dolce come piaceva a lui, un sorriso gentile, zigomi delicati, il mento appuntito. Weiss sorseggiò il drink e la guardò mentre si svestiva. La osservava con la sua solita espressione greve, senza riuscire a scacciare il nervosismo, il turbamento. La paura.
Paura, quella era la parola giusta; era stata la scoperta del corpo dell’avvocato a provocarla. Quel corpo appeso in cantina, e il primo parere del medico legale, secondo il quale era stato torturato. La polizia non era per niente contenta e neanche Weiss. Lo avevano interrogato per ore, trattenuto come se fosse un sospetto, mentre in lui cresceva ancora di più il senso di urgenza. Crouch era morto. Ridder era morto. Julie Wyant…
Si rivide mentre saliva quella scala, abbatteva la porta, la portava in salvo appena in tempo. Non riusciva a non pensarci… e aveva paura.
La ragazza si abbassò una spallina, ammiccando. Si leccò le labbra ma Weiss, invece di piacere, provò un senso di rifiuto. Non gli erano mai piaciuti gli approcci troppo espliciti, da film porno di bassa lega; le ragazze avrebbero dovuto saperlo.
Lei iniziò ad ansimare, accarezzandosi il seno.
Weiss fece un gesto impaziente, per interromperla. «Non devi fare così», disse.
La ragazza smise subito. «Certo, me l’avevano detto, me ne sono dimenticata.»
«Non preoccuparti», la rassicurò Weiss. «Spogliati e basta.»
Lo fece, svelta e senza provocazioni, come se lui non ci fosse, appoggiando i vestiti sul divano. Poi, in mutandine e reggiseno, tese le braccia verso di lui, come per dire: «Sono pronta!»
«Va bene così?» chiese.
«Perfetto», rispose Weiss. «Perfetto.»
La ragazza scosse la testa. «Dovresti sposarti, saresti più felice.»
Il ghiaccio nel bicchiere dell’uomo tintinnò, mentre cambiava posizione in poltrona. Non avrebbe dovuto chiedere una rossa, pensò, era stata un’idea stupida, puerile. Era chiaro che sarebbe stato deluso, non si poteva imitare quel colore, neanche con una tintura.
«Lo ero», spiegò. «Intendo dire, sposato. E non ero più felice.»
«Be’, provaci ancora», replicò la puttana. «Trovati una brava ragazza e basta. Un tipo come te, che problemi può avere?»
«Forse hai ragione, non so.»
«Tutte le ragazze dicono che sei bravo, davvero. Hai un’ottima reputazione.»
Weiss sorrise. «Be’, mi fa piacere sentirlo.»
«Sei romantico, scommetto che è così, uno di quelli che amano di più i loro sogni della vita reale.»
«Accidenti», disse Weiss. «Avevo detto a Casey di non mandarmi più psicologhe.»
La ragazza rise in modo aperto. «Davvero divertente.»
Si slacciò il reggiseno. Aveva dei bei seni, di prima qualità, rotondi, sodi, alti. Quando Weiss li vide il suo respiro si alterò, eppure parte della sua mente restava fissa sulla scala, sulla porta chiusa, sui minuti contati…
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