Aspirò un’altra boccata di Marlboro. Gli occhi chiari, freddi e privi di espressione, si strinsero a fessura mentre il fumo saliva.
All’improvviso il telefono squillò rumorosamente. Bishop afferrò il ricevitore, spense la sigaretta e rispose. «Sì?»
«Parlo con Frank Kennedy?»
Bishop si distese sulla sedia. Non riconobbe la voce sottile e affettata che proveniva dall’altro capo del filo, tuttavia intuì di chi potesse trattarsi. Si girò per non farsi distrarre dalla scena nella casa vicina. «Sì, sono Kennedy.»
«Bene, signor Kennedy, mi chiamo Alex Wellman e sono l’assistente personale di Bernard Hirschorn.»
«Ho capito. Che cosa posso fare per lei?»
«Il signor Hirschorn mi ha detto di combinare un incontro fra voi, se possibile.»
Bishop sorrise a denti stretti e rispose con distacco: «Certamente. Quando vuole che ci incontriamo?»
«Oggi a mezzogiorno, il suo ufficio è alla fondazione Driscoll.»
«Ci sarò.»
«Perfetto, grazie.» La comunicazione fu interrotta.
Bishop ripose la cornetta e appoggiò i gomiti sulle ginocchia. A pensarci bene, la situazione era positiva. Hirschorn voleva vederlo e ciò significava che, probabilmente, il suo piano aveva avuto successo. Forse, quando gli era giunta notizia del diverbio al Clover Leaf, Hirschorn aveva già dei dubbi sull’opportunità di impiegare Chris come pilota. Forse stava addirittura considerando di assumere Bishop per sostituirlo. Bene, pensò, potrebbe essere un’ottima cosa.
Bishop si alzò e tornò alla finestra, a osservare quanto accadeva nella casa a fianco.
Non si udivano più le grida e Chris era in ginocchio. Kathleen era ancora a terra, sdraiata sul dorso, con le gambe piegate come per difendersi. Chris le parlava gentilmente, con l’espressione contrita, e Bishop pensò che stesse piangendo. Muoveva le mani avanti e indietro come se volesse spiegarle qualcosa, o farsi perdonare. Poi le mise una mano sul polpaccio, ma Kathleen si ritrasse. Lui continuò, facendo salire la mano verso la coscia e poi più su, cercando di costringerla con il corpo ad aprire le ginocchia. Si chinò su di lei.
Kathleen gli mise la mano sul petto per allontanarlo e voltò la faccia. Ma lui insistette con dolcezza, parlando con calma, cercando di spiegare. Le braccia di lei si rilassarono, gli appoggiò le mani sulle spalle. Teneva il viso sempre girato, ma lui le accarezzò i capelli finché lei non si voltò e non si lasciò baciare sulle labbra, alzando una mano a sfiorargli la guancia ferita in un gesto quasi tenero. Non fece resistenza quando lui le sfilò i pantaloni.
Bishop continuò a guardarli, e pensò a che cosa ne sarebbe stato di Chris se Hirschorn avesse deciso di sostituirlo. Forse l’avrebbero ammazzato per chiudergli la bocca. In effetti, era plausibile. Probabilmente Hirschorn avrebbe ucciso Chris, perché l’operazione doveva essere di tale portata da non poter rischiare che lui parlasse.
Kathleen era ancora immobile sul pavimento e Chris era dentro di lei. Erano abbracciati, stretti uno all’altro, ma Kathleen era girata verso la finestra e sembrava guardar fuori distrattamente, sembrava pensare ad altro. Era come se il suo sguardo fosse rivolto verso la finestra di Bishop, mentre Chris si muoveva dentro di lei. Con le luci spente e il sole che batteva in quella direzione, sicuramente lei non lo vedeva, ma Bishop capì che probabilmente pensava a lui.
Continuò a guardare. Pensava alla telefonata appena ricevuta, a come Hirschorn avrebbe ucciso Chris se lui l’avesse sostituito. Guardava Kathleen che, a sua volta, lo guardava. Chris emise un ultimo gemito e si adagiò sopra di lei.
Bishop chinò il capo e si chiese se Hirschorn avesse intenzione di uccidere anche lei.
La motocicletta sobbalzava sotto di lui mentre percorreva la lunga strada sterrata. In quel tratto, le querce creavano una piacevole e fresca penombra. Quando gli alberi finirono, il caldo divenne soffocante, ma la proprietà si manifestò in tutta la sua ampiezza. C’erano prati ondulati in ogni direzione e irrigatori in ogni angolo. I giardinieri — otto o dieci che fossero — si muovevano fra aiuole di fiori viola o erano inginocchiati a curare il prato. Qua e là c’erano piccoli stagni dalle acque immobili dove si riflettevano il sole, il cielo e le montagne circostanti. Il luogo era incorniciato da una catena di monti scuri che sembravano raggiungere le nuvole candide. Il ranch di Hirschorn — ovvero della fondazione — era stato costruito ai piedi delle alture, al riparo degli alberi. Quella non era, pensò Bishop, semplicemente il rifugio di un boss locale. Piuttosto la residenza rispettabile di un pezzo grosso della malavita organizzata.
La strada piegò a destra e la Harley di Bishop seguì la curva, dirigendosi verso la casa, che apparve imponente e grandiosa. Era gialla con le rifiniture bianche e il tetto spiovente, su cui si aprivano tre lucernari. Una serie di porte finestre davano sul portico che girava tutto intorno all’edificio, sostenuto da pilastri e collegato alla strada da una scala di mattoni.
Bishop andò a fermarsi davanti alla scala; mentre spegneva il motore, la porta d’ingresso si aprì. Apparve un uomo piccolo e magro, dal portamento rigido e altezzoso come quello della casa, anche se le dimensioni non erano in proporzione. Le labbra erano strette, il naso arricciato come se sentisse un cattivo odore. L’assistente personale, pensò Bishop, Alex Wellman.
Scese dalla moto, si tolse il casco e lo appese al manubrio. Poi salì le scale andando incontro a Wellman, che introdusse Bishop nella stanza principale della casa. Le numerose porte finestre rendevano l’ambiente molto luminoso. C’erano tappeti in stile spagnolo e pesanti mobili in quercia, piccole statuine in bronzo di cavalli e bisonti sui tavolini e sugli scaffali. Una domestica messicana era indaffarata a pulire l’enorme camino di pietra. I pesanti stivali da motociclista di Bishop pestarono rumorosamente sul pavimento nel passare accanto alla donna.
I due uomini raggiunsero la porta della biblioteca.
«Signor Hirschorn, il signor Kennedy è qui per l’appuntamento», disse Wellman, molto formale.
Hirschorn stava girando intorno alla sua immane scrivania, con la mano protesa e il sorriso sul volto abbronzato. Era in maniche di camicia. Doveva avere circa sessant’anni, ma l’aspetto era quello di un uomo forte e solido.
«Signor Kennedy», disse, stringendo energicamente la mano del pilota. Lo squadrò e annuì, come se trovasse in lui qualcosa che gli piaceva. «Venga, venga, si accomodi.»
Bishop entrò e vide i due gorilla, appoggiati uno accanto all’altro a una parete. Uno era il primate dalla faccia ebete del Clover Leaf; l’altro era un tipo piccolo e vagamente isterico, tutto nervi e occhi.
Hirschorn indicò il più grosso. «Ha già conosciuto il mio autista, il signor Goldmunsen.» Spostò poi il braccio verso il più piccolo, che si sollevava sulle punte incapace di stare fermo, come se dovesse partire a razzo verso il soffitto, e aggiunse: «Questo è il suo collega, il signor Flake».
Wellman, intanto, indietreggiava quasi invisibile, nascosto nell’ombra, lui stesso un’ombra che si dissolse nell’aria accompagnata dal rumore della porta che si chiudeva.
Hirschorn raggiunse il lato della scrivania dove si trovava una poltrona di pelle, e vi si sedette come se fosse il suo trono. Non chiese a Bishop di accomodarsi e il pilota rimase in piedi, nel centro della stanza, osservato dai due gorilla.
«La farò sedere tra poco», disse il vecchio. «Ma prima, il signor Goldmunsen le darà un pugno nello stomaco. Lei probabilmente cadrà piegato dal dolore e resterà senza fiato per qualche minuto.»
Bishop sorrise appena, in modo forzato. Guardò Goldmunsen, poi Hirschorn, e disse, senza scomporsi: «Ne è certo?»
Читать дальше