In realtà non volevo affatto né le bende né il calmante. Quello che volevo veramente era tempo. È quanto si desidera sempre avere quando capita qualche disastro. Si vuole tempo per sperare che non sia accaduto veramente, tempo perché il disastro se ne vada, tempo per scoprire che era tutto un errore, tempo per permettere a Dio di intervenire.
«D’accordo» disse Mitchell. «Vai nel bagno, laggiù.»
Era una stanza senza finestre, larga circa un metro e mezzo e lunga due. Un water. Un lavabo. E questo era tutto. Sul lato esterno della porta era stata installata una serratura. Non sembrava nuova di zecca, perciò immaginai di non essere la prima persona che veniva tenuta prigioniera lì.
Entrai nella piccola stanza e loro chiusero a chiave la porta. Appoggiai l’orecchio allo stipite.
«Sai una cosa, sto cominciando a odiare questo lavoro» disse Mitchell. «Perché non possiamo mai fare questo genere di cose in una bella giornata? Una volta ho dovuto prendere un tizio, Alvin Margucci: faceva così fottutamente freddo che la pistola si era congelata e abbiamo dovuto picchiarlo a morte con un badile. E poi quando abbiamo cominciato a scavargli la fossa non riuscivamo neanche a scalfire il terreno. È stato un gran casino.»
«Sembra davvero un lavoro duro» disse Habib. «È molto meglio al mio Paese, dove è quasi sempre caldo e il terreno è soffice. Spesso non dobbiamo neppure scavare perché il Pakistan è una terra molto accidentata e possiamo semplicemente gettare il tizio appena morto dentro a un burrone.»
«Già, be’, sai… qui abbiamo i fiumi, ma i cadaveri vengono a galla e questo non va bene.»
«Proprio così» disse Habib. «L’ho sperimentato anch’io.»
Mi sembrò di sentirli uscire, udii la porta all’estremità del salone aprirsi e poi richiudersi. Provai a forzare la porta del bagno. Poi mi guardai attorno. Feci un po’ di respirazione e osservai nuovamente il piccolo locale. Mi imposi di riflettere. Mi sentivo come Winnie the Pooh, che era un orsetto di poco cervello. Si trattava di una orribile stanzetta, con un lavandino e un water sudici e un pavimento di linoleum lurido. La parete accanto al lavandino era macchiata di acqua con una chiazza di umido vicino al soffitto. Probabilmente un problema di tubature al piano superiore. Non ci trovavamo certo in una costruzione di buona qualità. Misi la mano sul muro e lo sentii trasudare, le pareti erano fradicie.
Indossavo un paio di anfibi con grosse suole robuste. Mi misi a sedere sul lavandino, tirai un calcio potente alla parete e il piede la trapassò uscendo direttamente dall’altra parte. Cominciai a ridere, e poi mi resi conto che stavo piangendo. Non c’era tempo per gli isterismi, mi dissi. Dovevo solo andarmene di lì il più velocemente possibile.
Afferrai i bordi del buco nel muro, togliendone via grossi pezzi. Riuscii a ricavare un’apertura sufficientemente grande tra i montanti verticali, e poi mi misi al lavoro sulla parete più esterna. Fu questione di minuti e avevo distrutto entrambe le pareti abbastanza da potermici infilare. Le unghie si erano rotte e le dita sanguinavano, ma ora mi trovavo in un piccolo ufficio e mi ero lasciata il bagno alle spalle. Provai ad aprire la porta. Era chiusa a chiave. Gesù, pensai, non dirmi che devo passare attraverso l’intero edificio facendo buchi nei muri a colpi di stivale! Aspetta un momento, sciocca: l’ufficio ha una finestra. Mi costrinsi a respirare profondamente. Non ero al massimo della lucidità, ero troppo spaventata. Provai ad aprire la vetrata, ma non si mosse. Era rimasta chiusa per troppo tempo, sulla serratura erano state passate troppe mani di vernice. Nella stanza non c’erano mobili. Mi liberai della giacca, la avvolsi attorno alla mano, strinsi il pugno e ruppi la finestra. Tolsi quanti più pezzi di vetro riuscii e guardai fuori. Era un salto piuttosto alto, ma forse potevo farcela. Mi sfilai uno stivale e con quello eliminai tutti i vetri rimasti alla finestra in modo da non tagliarmi più di quanto fosse necessario. Rimisi l’anfibio e con una gamba scavalcai il davanzale. La finestra si affacciava sulla parte anteriore dell’edificio. Per favore, mio Dio, fa che Habib e Mitchell non arrivino proprio mentre sto saltando dalla finestra. Mi calai lentamente, con la schiena verso la strada, in modo da potermi tenere stretta con le mani, lasciandomi penzolare giù, le dita dei piedi puntate contro le fessure tra i mattoni. Arrivata al massimo dell’estensione, mi lasciai cadere e atterrai prima sui piedi e poi sul sedere. Rimasi a terra per un minuto, stordita, sdraiata sul marciapiede, con la pioggia che mi batteva sul viso.
Inspirai profondamente e mi rialzai, poi cominciai a correre. Attraversai la strada, percorsi un lungo vialetto e poi un’altra strada. Non avevo idea di dove stessi andando. Stavo soltanto mettendo della distanza tra me e l’edificio di mattoni.
Mi fermai per riprendere fiato, piegata in due, con gli occhi che mi si incrociavano per il dolore ai polmoni. I jeans si erano strappati all’altezza delle ginocchia e queste si erano graffiate sui vetri. Entrambe le mani erano tagliate. Avevo perduto la giacca nella fretta di scappare: dopo averla tolta dalla mano attorno alla quale l’avevo avvolta, l’avevo lasciata là. Indossavo una T-shirt e una camicia di flanella ed ero bagnata fradicia: battevo i denti per il freddo e per la paura. Mi appoggiai al muro di un palazzo e ascoltai il rumore, attutito dalla pioggia, delle auto che passavano non lontano da lì, a Broad.
Non volevo andare a Broad, mi sarei sentita troppo esposta. Quella era una zona della città che non conoscevo bene. Non avevo molta scelta, ma pensai che avrei dovuto entrare in uno di quei palazzi e chiedere aiuto. Dall’altro lato della strada c’era un negozio di generi vari collegato a una pompa di benzina. La cosa mi metteva a disagio: troppo visibile. Mi trovavo accanto a un edificio che sembrava ospitare degli uffici. Entrai dalla porta principale in un piccolo ingresso. Un unico ascensore si trovava sulla sinistra, proprio accanto c’era una porta antincendio metallica che conduceva alle scale. Il tabellone affisso alla parete elencava le varie società ospitate nel palazzo. Cinque piani di uffici. Non riconobbi nessuno dei nomi. Salii le scale fino al primo piano e scelsi una porta a caso. Si apriva su una stanza piena di scaffali di metallo carichi di computer, stampanti e componenti informatiche assortite.
Un tizio in T-shirt, dai capelli crespi, lavorava a una scrivania vicino alla porta. Alzò lo sguardo quando misi dentro la testa.
«Che cosa fate qui?» domandai.
«Ripariamo computer.»
«Mi stavo domandando se avrei potuto usare il vostro telefono per fare una chiamata urbana. Sono caduta dalla bicicletta per via della pioggia e ho bisogno di telefonare a qualcuno per farmi dare un passaggio.» Forse non era opportuno aggiungere che c’erano degli uomini che mi cercavano per mutilarmi: sarebbe stato più di quello che lui desiderava sapere.
Mi squadrò da capo a piedi. «È sicura che quella che mi ha raccontato sia la storia vera?»
«Certo che sono sicura.» Nel dubbio… sempre meglio mentire.
Con un gesto mi indicò il telefono all’estremità della scrivania. «Prego.»
Non potevo telefonare ai miei, non c’era modo di spiegar loro questa faccenda. E non volevo chiamare Joe perché non desideravo che sapesse quanto ero stata stupida. Non avevo nessuna intenzione di chiamare Ranger perché mi avrebbe rinchiusa, anche se l’idea cominciava a diventare allettante. Rimaneva solo Lula.
«Grazie» dissi all’uomo, riagganciando la cornetta dopo aver dato l’indirizzo a Lula. «Molto gentile.»
Sembrava quasi inorridito dal mio aspetto, perciò uscii dall’ufficio e scesi al piano terra ad aspettare.
Читать дальше