«Qui non le ho» rispose Dougie «ma posso fare una telefonata. Conosco un tizio.»
Mezz’ora dopo bussarono alla porta e tutti insieme spingemmo via il frigorifero. Aprimmo e io rimasi a bocca aperta.
«Lenny Gruber» dissi. «È un secolo che non ti vedo.»
«Sono stato molto impegnato.»
«Già, so tutto. Troppe schifezze da fare e così poco tempo.»
«Amico!» disse il Luna. «Entra. Prendi un salatino alla polpa di granchio.»
Gruber e io eravamo stati compagni di scuola. Era il genere di persona che scorreggia in classe e poi grida: «Ehi, che puzza! Chi è che ha tagliato il formaggio?». Gli mancava un molare e aveva i pantaloni sempre un po’ slacciati.
Gruber si servì un salatino alla polpa di granchio e mise una valigetta di alluminio sul tavolino del salotto. La aprì e all’interno vidi una gran confusione di scacciacani, spray da difesa, manette, coltelli, mine e pugni di ferro. Persino una confezione di preservativi e un vibratore. Immaginai che facesse ottimi affari con i magnaccia.
Scelsi un paio di manette, una scacciacani e una piccola bomboletta di spray urticante. «Quanto fa?» domandai.
Lui aveva gli occhi incollati al mio seno. «Per te, un prezzo speciale.»
«Non voglio favori» dissi.
Mi propose un prezzo accettabile.
«Affare fatto. Ma dovrai aspettare per essere pagato. Non ho soldi con me.»
Lui sogghignò e il molare mancante spiccò nella sua bocca come un cratere. «Possiamo trovare un accordo.»
«Non possiamo trovare nessun accordo. Ti farò avere i soldi domani.»
«Se non mi paghi prima di domani, il prezzo è più alto.»
«Stammi a sentire, Gruber. Ho avuto una giornata veramente, veramente pessima. Non insistere. Sono arrivata al limite.» Premetti il pulsante di accensione della scacciacani. «Questa cosa funziona? Forse dovrei provarla su qualcuno.»
«Le donne» disse Gruber al Luna. «Non si può vivere con loro, non si può vivere senza di loro.»
«Potresti spostarti un po’ sulla sinistra?» domandò il Luna. «Sei proprio davanti al televisore, amico, e siamo al punto culminante del telefilm.»
Presi in prestito da Dougie una jeep Cherokee vecchia di due anni. Era una delle quattro auto rimaste invendute per via del fatto che il libretto e la ricevuta d’acquisto erano andate smarrite. Avevo trovato un paio di jeans e una T-shirt che mi andavano più o meno bene e mi ero fatta prestare una giacca e un paio di calzini puliti dal Luna. Né Dougie né il Luna, però, avevano una lavatrice o una asciugatrice, né tantomeno un ferro da stiro, perciò quello che mi mancava era la biancheria intima. Dalla tasca posteriore dei jeans mi pendevano le manette. Il resto dell’equipaggiamento era infilato nell’assortimento di tasche della giacca.
Mi recai al parcheggio dietro all’ufficio di Vinnie e posteggiai. Aveva smesso di piovere e l’aria sembrava un tiepido annuncio di primavera. Era molto buio, attraverso le nuvole non si riuscivano a vedere né le stelle né la luna. Dietro l’ufficio c’era spazio sufficiente per quattro auto, ma fino a quel momento vi stava soltanto la mia. Ero in anticipo. Probabilmente non così in anticipo come Ranger. Lui sicuramente mi aveva vista arrivare e mi stava osservando da qualche appostamento per essere sicuro che l’incontro non fosse rischioso. Agiva seguendo le comuni procedure.
Io osservavo il vicolo che portava al piccolo cortile quando Ranger bussò lievemente al finestrino.
«Dannazione!» strillai. «Mi hai fatto venire un colpo. Non dovresti prendere la gente alle spalle in questo modo.»
«E tu dovresti stare con le spalle al muro, bambina.» Aprì la portiera. «Togliti la giacca.»
«Avrò freddo.»
«Toglitela e dammela.»
«Tu non ti fidi di me.»
Lui sorrise.
Mi tolsi la giacca e gliela porsi.
«Tieni un sacco di roba in tasca» commentò.
«Le solite cose.»
«Scendi dall’auto.»
Non era così che pensavo sarebbe andata. Non credevo che sarei rimasta senza giacca tanto in fretta. «Preferirei che salissi tu. È più caldo qui.»
«Scendi.»
Sospirai e uscii.
Lui mise una mano sul mio fondoschiena, infilò le dita sotto la cintura dei jeans e tolse le manette.
«Andiamo dentro» disse. «Mi sento più sicuro.»
«Solo per curiosità: sai come aggirare il sistema d’allarme o conosci il codice di sicurezza?»
Lui aprì la porta sul retro. «Conosco il codice.»
Entrammo nell’ingressino in cui conservavamo le armi e la cancelleria di scorta. Ranger aprì la porta che conduceva alla stanza sul davanti e la luce naturale che proveniva dalla strada si riversò dentro attraverso le vetrine. Stando tra le due stanze poteva controllare entrambe le porte.
Posò la mia giacca e le manette su uno schedario fuori dalla mia portata e guardò il braccialetto che avevo ancora al polso dal giorno prima. «Un nuovo modello.»
«Un po’ fastidioso, però.»
Prese la chiave dalla tasca, aprì la manetta, la tolse e la gettò sulla mia giacca. Poi mi afferrò entrambe le mani e voltò i palmi verso l’alto. «Indossi gli abiti di qualcun altro, hai la pistola di qualcun altro, hai le mani ferite e non porti biancheria intima. Che cosa sta succedendo?»
Guardai giù, la sagoma del seno e la sporgenza dei capezzoli che si disegnavano sulla T-shirt. «A volte non indosso biancheria.»
«Tu non stai mai senza biancheria.»
«Come lo sai?»
«Un talento naturale.»
Lui portava i suoi soliti abiti da strada: pantaloni neri sportivi infilati in stivali neri, una T-shirt nera e una giacca a vento nera. Si tolse quest’ultima e me la avvolse intorno alle spalle. Aveva ancora il calore del suo corpo e un leggero odore di oceano.
«Hai passato molto tempo a Deal?» domandai.
«Dovrei essere là anche adesso.»
«C’è qualcuno che sorveglia Ramos per te?»
«Tank.»
Con le mani teneva ancora la giacca a vento, le nocche che poggiavano leggermente contro il mio seno. Un gesto di possesso intimo, più che un’aggressione sessuale.
«Come pensi di farlo?» domandò, a bassa voce.
«Fare che cosa?»
«Catturarmi. Non è per questo che siamo qui?»
Quello era il piano originale, ma lui mi aveva portato via tutti i giocattoli.
E ora l’aria che avevo nei polmoni mi sembrava calda e densa e cominciavo a pensare che dopo tutto non erano fatti miei se Carol voleva gettarsi dal ponte. Appoggiai le mani sul suo addome, e lui mi guardò attentamente. Sospettai che stesse ancora aspettando una risposta alla sua domanda, ma io avevo un problema più urgente. Non sapevo che cosa toccare per primo. Dovevo lasciar scorrere le mani verso l’alto? O dovevo muoverle verso il basso? Io volevo scendere, ma forse sarebbe sembrato troppo precipitoso. Non volevo che pensasse che ero una ragazza facile.
«Steph?»
«Mmm?»
Tenevo ancora le mani sul suo stomaco e lo sentii ridere. «Sento odore di bruciato, bambina. Forse stai pensando troppo.»
Non era il mio cervello che andava a fuoco. Con la punta delle dita andai un po’ in giro a tastare.
Lui scosse la testa. «Non mi incoraggiare. Non è un buon momento.» Mi spostò le mani dal suo stomaco e guardò di nuovo le ferite. «Com’è successo?»
Gli raccontai di Habib, di Mitchell e della fuga dalla fabbrica.
«Arturo Stolle si meritava uno come Homer Ramos» disse Ranger.
«Non saprei. Nessuno mi dice niente!»
«Per anni, nel giro del crimine, Stolle ha avuto la fetta di torta che riguardava l’immigrazione e l’adozione illegale. Usa i contatti che ha in Estremo Oriente per far arrivare nel Paese ragazzine giovanissime, per la prostituzione e per procreare neonati da dare in adozione ad altissimo prezzo. Sei mesi fa, Stolle si è reso conto che poteva utilizzare gli stessi contatti per contrabbandare droga insieme con le ragazze. Il problema è che la droga non faceva parte della fetta di torta di Stolle. Perciò ha agganciato Homer Ramos, che era notoriamente stupido come una merda e sempre a corto di denaro, e si è messo d’accordo con lui perché gli facesse da intermediario con i contatti all’estero. Stolle era convinto che gli altri cartelli della mafia sarebbero stati alla larga dal figlio di Alexander Ramos.»
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