Poiché sembrava che sulla mia agenda non fosse registrato alcun impegno fino a sera, pensai che avrei potuto pulire la gabbia del criceto. E dopo la gabbia del criceto, forse, sarei passata al frigorifero. Diavolo, avrei potuto persino farmi prendere la mano e rimettere a posto il bagno… no, questo era improbabile. Ripescai Rex dalla sua mangiatoia e lo misi nella grande zuppiera che usavo per gli spaghetti, sul piano di lavoro della cucina. Rimase lì seduto a sbattere le palpebre alla luce improvvisa, contrariato per essere stato svegliato in pieno sonno.
«Mi dispiace, piccolo» dissi. «Devo pulire la vecchia fattoria.»
Dieci minuti dopo Rex era di nuovo nella sua gabbia, agitatissimo perché tutti i suoi tesori nascosti ora si trovavano in un grosso sacco di plastica della spazzatura. Gli diedi una noce sgusciata e un chicco d’uva passa. Lui portò il chicco d’uva nella mangiatoia rimessa a nuovo e quella fu l’ultima volta che lo vidi.
Guardai fuori dalla finestra del soggiorno e vidi il parcheggio bagnato. Ancora nessun segno di Habib e Mitchell, tutte le auto appartenevano agli inquilini. Ottimo, potevo andare a gettare la spazzatura senza alcun rischio. Mi avvolsi nella giacca, presi il sacco con la lettiera sporca del criceto e mi avviai lungo il corridoio.
La signora Besder era ancora nell’ascensore. «Oh, hai un aspetto molto migliore adesso, cara» disse. «Non c’è niente che faccia bene come trascorrere un’ora di relax a chiacchierare nel salone di bellezza.» Le porte dell’ascensore si aprirono sull’ingresso e io saltai fuori. «Ora si sale» cantilenò la signora Bestler. «Abbigliamento per uomo, terzo piano.» E le porte si richiusero.
Attraversai l’ingresso fino alla porta sul retro e mi fermai un momento per tirare su il cappuccio. La pioggia era insistente. L’acqua aveva formato pozzanghere sull’asfalto luccicante e perle sulle carrozzerie lucidate di recente degli anziani inquilini. Feci un passo fuori, chinai la testa e mi affrettai ad attraversare il cortile fino alla pattumiera.
Gettai il sacco dentro al cassonetto, mi voltai e mi trovai faccia a faccia con Habib e Mitchell. Erano bagnati fradici e non avevano un aspetto amichevole.
«Da dove venite?» domandai. «Non ho visto la vostra macchina.»
«È parcheggiata in una strada laterale» disse Mitchell mostrandomi la pistola «ed è lì che andremo. Comincia a camminare.»
«Non credo proprio» dissi. «Se mi sparate Ranger non avrà più nessun motivo di trattare con Stolle.»
«Sbagliato» disse Mitchell. «Solo se noi ti uccidiamo, Ranger non avrà alcun motivo.»
Il cassonetto dei rifiuti si trovava all’estremità posteriore del cortile. Scivolai su un tratto di prato reso viscido dalla pioggia, con le gambe che tremavano, troppo spaventata per riuscire a pensare. Mi domandavo dove si trovasse Ranger in quel momento, proprio quando avevo bisogno di lui. Perché non era lì, a insistere per chiudermi a chiave in un rifugio? Adesso che avevo pulito la gabbia del criceto sarei stata felice di seguirlo.
Mitchell era di nuovo alla guida del furgoncino verde. Immaginai che non fossero riusciti a pulire bene la Lincoln. E forse era meglio che non scegliessi proprio quell’argomento per fare conversazione.
Habib si sedette di fianco a me sul sedile posteriore. Indossava un impermeabile che sembrava completamente intriso d’acqua: dovevano essere rimasti nascosti tra i cespugli che circondavano il palazzo. Lui non portava il cappello e l’acqua gli gocciolava dai capelli giù per la schiena e sul viso. Si passò una mano sulla faccia. Nessuno sembrava preoccuparsi del fatto che stavamo bagnando tutti i rivestimenti interni dell’auto.
«Bene» dissi cercando di tenere un tono di voce normale. «E adesso?»
«Adesso non occorre che tu sappia niente» rispose Habib. «Devi soltanto stare buona, ora.»
Stare buona era la cosa peggiore, perché mi lasciava il tempo di pensare, e pensare non era piacevole. Non c’era da aspettarsi niente di positivo da questo viaggio. Cercai di chiudere la porta alle emozioni, la paura e il rimorso non mi avrebbero portata da nessuna parte. Non volevo neppure lasciar correre libera l’immaginazione. Poteva semplicemente trattarsi di un altro incontro con Arturo, non c’era ragione di perdere la testa prima del tempo. Mi concentrai sul respiro. Profondo e regolare. Inspirare ossigeno. Mentalmente intonai una cantilena di meditazione. Ohhmmm. Lo avevo visto fare in televisione e sembrava che funzionasse sul serio.
Mitchell era diretto a ovest sulla Hamilton, in direzione del fiume. Attraversò Broad e si infilò nelle stradine della zona industriale della città. Il parcheggio in cui entrò era adiacente a una struttura di mattoni a tre piani che era stata una fabbrica di pezzi di ricambio, ma era da tempo in disuso. Un cartello con la scritta VENDESI era stato attaccato alla facciata dell’edificio, ma sembrava che fosse lì da un centinaio d’anni.
Mitchell parcheggiò e scese dall’auto. Aprì la portiera dalla mia parte e mi fece cenno di uscire tenendomi sotto tiro con la pistola. Habib mi seguì. Aprì una porta laterale dell’edificio con una chiave ed entrammo insieme. Era freddo e umido all’interno. L’illuminazione era fioca, proveniente solo dalle porte aperte dei piccoli uffici nei quali il sole filtrava attraverso finestre sudicie. Percorremmo un breve corridoio ed entrammo nell’area di accoglienza. Le piastrelle del pavimento scricchiolavano sotto le suole e tutta la stanza era spoglia a eccezione di due sedie pieghevoli di metallo e di una piccola e rovinata scrivania di legno. C’era una scatola di cartone posata a terra.
«Siediti» mi disse Mitchell. «Prendi una sedia.»
Si tolse il cappotto e lo gettò sulla scrivania. Habib fece lo stesso. Le loro camicie non erano molto più asciutte dei cappotti.
«Bene, questo è il piano» disse Mitchell. «Ora ti daremo una botta in testa con la scacciacani e poi, mentre sarai priva di conoscenza, ti taglieremo un dito con le forbici, queste.» Prese un paio di grosse cesoie dalla scatola di cartone. «In questo modo avremo qualcosa da mandare a Ranger. Poi staremo qui con te a fare la guardia e a vedere quello che succede. Se lui vuole trattare, noi saremo disponibili. Se non vuole, immagino che dovremo ucciderti.»
Sentivo un forte ronzio nelle orecchie e scossi la testa per farlo svanire. «Aspettate un minuto» dissi. «Avrei qualche domanda da fare.»
Mitchell sospirò. «Le donne hanno sempre domande da fare.»
«Forse potremmo tagliarle la lingua» propose Habib. «A volte funziona. Al mio Paese lo facciamo, e con ottimi risultati.»
Cominciavo a sospettare che avesse mentito sulle sue origini pakistane: mi sembrava piuttosto che il suo Paese fosse l’inferno.
«Il signor Stolle non ha detto niente a proposito della lingua» disse Mitchell. «Forse vuole risparmiarla per qualche altra volta.»
«Dove avete intenzione di rinchiudermi?» domandai a Mitchell.
«Qui. Ti chiuderemo nel bagno.»
«Ma come farete con il sangue?»
«In che senso?»
«Potrei morire dissanguata. E allora come farete a servirvi di me per trattare con Ranger?»
Si guardarono l’un l’altro. Non ci avevano pensato. «Questa è una cosa nuova per me» disse Mitchell. «Di solito mi limito a picchiare la gente a morte o a fargli saltare le cervella.»
«Dovreste procurarvi delle bende pulite e un po’ di antisettico.»
«Penso che sia giusto» assentì Mitchell. Guardò l’orologio. «Non abbiamo molto tempo. Devo riportare l’auto a mia moglie perché possa andare a prendere i bambini a scuola. Non voglio che debbano aspettare lì fuori sotto la pioggia.»
«C’è un negozio sulla Broad Street» disse Habib. «Potremmo prendere tutto là.»
«Comprate anche qualche calmante per il dolore» dissi.
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