Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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Concentrati, mi dissi. Tara, la fine del sentiero. Il resto non ti riguarda.

Mi rimisi in movimento, senza nemmeno voltarmi a vedere che fine aveva fatto la sacca con i due milioni di dollari. Anche la sacca era priva d’importanza, come tutto il resto, a parte Tara. Cercai di richiamare quell’immagine nell’ombra, la sagoma che si era stagliata contro il raggio della torcia. Continuai ad andare avanti arrancando. Mia figlia poteva essere lì, ancora pochi passi e l’avrei rivista. Mi avevano dato un’altra possibilità di riprendermela. Concentrati, dividi in compartimenti, nulla deve fermarti.

Come agente federale Rachel aveva ricevuto un ottimo addestramento all’uso delle armi e al combattimento a mani nude. Aveva imparato molto, in quei quattro mesi passati a Quantico. Sapeva che un vero combattimento non ha nulla in comune con quelli che si vedono in televisione. Mai, per esempio, commettere la fesseria di sollevare la gamba per tirare un calcio in faccia al nemico. Mai fare un movimento che ti porti a volgergli le spalle, mai ruotare su te stesso, o saltare.

È piuttosto semplice avere la meglio in un combattimento a mani nude, basta colpire le parti del corpo più vulnerabili. Il naso, per esempio, se lo colpisci gli occhi del tuo avversario si riempiono di lacrime. Anche gli occhi, naturalmente. E la gola: chi ha preso un colpo in gola sa bene che fa passare subito la voglia di battersi. Il basso ventre, ovvio. Ma è un bersaglio difficile, anche perché l’uomo è istintivamente portato a proteggerlo. È consigliabile quindi fingere di mirare al basso ventre, per poi colpire un’altra parte del corpo.

E ci sono altre zone come il plesso solare, il collo del piede, il ginocchio. Ma queste tecniche hanno pur sempre un limite. Nei film succede spesso che il più piccolo di due contendenti riesca a battere il più grosso, e tutto sommato può accadere anche nella realtà. Ma se la donna è piccola come Rachel e l’uomo è grosso come il suo avversario in quel momento, ci sono scarse probabilità che la donna ne esca vittoriosa. Se poi chi attacca sa il fatto suo, le probabilità più che scarse sono nulle.

L’altro problema per una donna, in una situazione del genere, è che i combattimenti non si svolgono mai come nei film. Pensate un attimo a qualche scazzottata alla quale avete assistito in un bar, o allo stadio, o su un campo di gioco: i due finiscono di solito avvinghiati a terra. In televisione o su un ring i contendenti rimangono in piedi a prendersi a pugni, certo. Ma nella vita uno dei due si china afferrandosi all’altro, e poi continuano a lottare a terra. Per quanto fosse allenata, se le cose si fossero messe in quel modo Rachel non avrebbe avuto alcuna possibilità di battere un avversario grande e grosso come quello.

Rachel aveva fatto pratica di combattimento a mani nude, si era allenata, aveva preso parte a simulazioni di situazioni pericolose — a Quantico avevano persino costruito a questo scopo una “finta città” — ma non era mai rimasta coinvolta fisicamente in una vera lotta. Non era quindi preparata al panico che ti prende in quei casi, a quella specie di pizzicore alle gambe, improvvisamente insensibili, per l’adrenalina che, mescolata alla paura, ti toglie le forze.

Non riusciva a respirare. Colta del tutto alla sprovvista, reagì nel modo sbagliato a quella mano che le premeva sulla bocca. Invece di scalciare subito all’indietro, cercando di colpire il ginocchio o il collo del piede del suo assalitore, agì d’istinto e tentò con entrambe le mani di liberarsi la bocca. Ma inutilmente.

In pochi secondi lo sconosciuto le appoggiò l’altra mano sulla nuca, stringendola in una morsa. Sentiva le dita dell’uomo scavarle le gengive, premerle sui denti, quelle mani erano così forti da farle temere che da un momento all’altro potessero fracassarle il cranio come fosse un guscio d’uovo. Ma non fu quello che accadde. L’uomo la sollevò letteralmente da terra e fu il collo ad avere la peggio: sembrava che le si dovesse staccare da un momento all’altro. La mano che le copriva la bocca e il naso frattanto le impediva di respirare. Lui continuò a tenerla sollevata. Rachel allora gli afferrò i polsi cercando di allentare la presa sul collo.

Ma le mancava l’aria.

Sentiva nelle orecchie una specie di ruggito, i polmoni le bruciavano. Allora prese a scalciare, ma i suoi calci erano così deboli che lui non si curò nemmeno di pararli. Teneva il viso accanto al suo, e lei si sentiva addosso l’alito umido dello sconosciuto. I visori notturni erano finiti di traverso ma non erano caduti, e ora le impedivano di vedere.

La pressione alla testa era insopportabile. Cercando di mettere in pratica ciò che aveva imparato durante l’addestramento, Rachel piantò le unghie nelle mani dell’uomo, subito dietro i pollici. Effetto, zero. Scalciò più forte. Nulla. Aveva bisogno di respirare, si sentiva come un pesce preso all’amo che tenta disperatamente di divincolarsi prima di morire. E subentrò il panico.

La pistola.

Ci arrivava, ad afferrarla. Se solo fosse riuscita a riprendere il controllo per un momento, se avesse trovato il coraggio di lasciar ricadere la mano, avrebbe potuto infilarla in tasca, estrarre la pistola e sparare. Era la sua unica possibilità. Il cervello le si stava annebbiando, e di lì a poco avrebbe perso conoscenza.

Nel giro di pochi secondi la testa le sarebbe esplosa. Lasciò allora cadere la mano sinistra, rendendosi conto che il collo, sottoposto a quella trazione, stava per spezzarsi come un elastico. La mano trovò la fondina, le dita toccarono la pistola.

Ma l’uomo se ne accorse e le assestò una ginocchiata nella schiena, mentre lei era sempre sospesa per aria come una bambola di pezza. Il dolore esplose in un lampo rosso, gli occhi le si rovesciarono all’indietro. Ma lei strinse i denti e tentò di tirare fuori la pistola, e l’uomo a quel punto fu costretto a rimetterla a terra.

Aria.

La trachea era finalmente libera. Lei cercò di non respirare troppo in fretta, ma i suoi polmoni la pensavano diversamente. E non riuscì a controllarli.

Il suo sollievo fu comunque di breve durata. Con una mano l’uomo le impedì di estrarre la pistola e con l’altra le assestò un colpo micidiale alla gola. Rachel si sentì soffocare e cadde a terra. L’uomo afferrò la pistola e la gettò via, poi le fu sopra schiacciandola con il corpo e quel poco di aria che lei era riuscita a immagazzinare uscì di getto. Lui le si mise a cavalcioni sul petto e fece per stringerle la gola con le mani.

In quel momento passò veloce un’auto della polizia.

L’uomo si raddrizzò di scatto. Rachel tentò di approfittarne, ma quello era decisamente troppo grosso. Lui tirò fuori di tasca un cellulare e se lo portò alla bocca. «La polizia! Scappiamo!» bisbigliò con il suo vocione roco.

Lei tentò di muoversi, di fare qualcosa, ma ormai c’era ben poco da fare. Sollevò lo sguardo in tempo per vedere l’omone serrare la mano a pugno in direzione del suo viso. Allora cercò di spostare la testa, ma non c’era proprio spazio.

Il pugno la mandò a sbattere contro l’acciottolato. Poi l’oscurità l’avvolse.

Quando Marc le passò davanti, Lydia uscì dal cespuglio puntandogli la pistola alla nuca, con il dito sul grilletto. E il grido «La polizia! Scappiamo!» le giunse all’auricolare facendola trasalire, al punto che quasi fece fuoco. Ma il suo cervello lavorava in fretta. Seidman si stava allontanando lungo il sentiero e a Lydia fu subito chiaro ciò che doveva fare. Gettò via la pistola. Senza l’arma nessuno avrebbe potuto accusarla, non poteva essere collegata a lei se non ce l’aveva addosso. Come molte armi, non era identificabile. E lei aveva messo i guanti, naturalmente, quindi niente impronte digitali.

Tuttavia, e il suo cervello si mosse ancora più in fretta, che cosa le impediva di prendere la sacca con i soldi?

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