Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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La luce poteva distrarre, al buio invece si rifletteva meglio.

Cercava di rilassare i muscoli ogni volta che l’auto passava sopra una gibbosità del terreno; era ancora perplessa sull’atteggiamento di Marc di poco prima. L’agente che era venuto a cercarlo aveva sicuramente detto qualcosa che l’aveva colpito. Su di lei? Forse. Si chiese che cosa potesse avergli detto e come avrebbe dovuto reagire lei.

Ma in quel momento non aveva importanza, stavano andando all’appuntamento e lei doveva concentrarsi su ciò che li attendeva.

Quel ruolo le era familiare e la cosa le provocò una fitta di nostalgia. Le mancava il suo vecchio impiego all’FBI, le piaceva quel lavoro, forse perché non aveva altri interessi al mondo. Non era soltanto una via di fuga, era la sola cosa che le interessasse veramente fare. Certi lavorano tutto il giorno non vedendo l’ora di tornare a casa e vivere la propria vita. Per Rachel era il contrario.

Dopo anni di separazione, ecco qualcosa che lei e Marc avevano in comune: facevano un lavoro che amavano. E le venne da chiedersi se per caso, sia per lui sia per lei, il lavoro non fosse un sostituto dell’amore. Ma forse ora stava davvero esagerando.

Marc aveva ancora il suo lavoro, lei no. Questo la rendeva forse più disperata.

No, invece, perché la bambina di Marc era scomparsa.

Nel buio del bagagliaio si spalmò sul viso una crema nera, per evitare riflessi. L’auto imboccò una salita, lei era pronta con i suoi attrezzi del mestiere.

Pensò a Hugh Reilly, quel figlio di puttana.

La rottura con Marc, e tutto quello che era avvenuto in seguito, era da attribuirsi solamente a Hugh, il suo amico più caro al college. Era quello che voleva, esserle amico, le aveva detto. Senza secondi fini, sapeva che lei aveva un ragazzo. Era stata ingenua, Rachel, o se l’era andata a cercare? Gli uomini che dicono di volerti essere “soltanto amici” sperano in realtà di prendere il posto del tuo ragazzo, quasi che l’amicizia fosse come quel cerchio disegnato sul campo da baseball, accanto alla panchina, dove il battitore si allena prima del proprio turno. Quella sera Hugh le aveva telefonato in Italia animato dalle migliori intenzioni. “Visto che ti sono amico, credo che dovresti saperlo” le aveva detto. Giusto. E poi le aveva raccontato ciò che Marc aveva fatto durante una stupida festa della confraternita.

Sì, basta prendersela con se stessa o con Marc. Hugh Reilly. Come sarebbe stata ora la sua vita, se soltanto quel figlio di puttana si fosse fatto gli affari suoi? Va’ a saperlo. Ma che ne era stato invece della sua di vita? A questa domanda era più facile rispondere. Beveva troppo. Si arrabbiava troppo facilmente. Passava troppo tempo a leggere una guida ai programmi televisivi. Per non parlare poi di quel vero capolavoro: si era impegolata in una relazione autodistruttiva, e ne era uscita nel peggiore dei modi.

L’auto sterzò e riprese a salire, sballottando Rachel sul fondo del bagagliaio, e poco dopo si fermò. Lei sollevò il capo e quelle crudeli riflessioni svanirono d’incanto.

La partita stava per cominciare.

Dalla vecchia torre di guardia del forte, a un’ottantina di metri d’altezza rispetto all’Hudson, Heshy si godeva la splendida vista delle Jersey Palisades che si estendevano dal Tappan Zee Bridge, alla sua destra, al George Washington Bridge, a sinistra. Rimase ad ammirarla per un po’ prima di mettersi al lavoro.

Come in risposta a un segnale convenuto, Seidman imboccò proprio in quel momento l’uscita dell’Henry Hudson Parkway. Nessuno lo seguiva. Heshy tenne gli occhi fissi sulla strada, ma non vide nessun’auto rallentare o accelerare. Nessuno stava cercando di non dare l’impressione di seguire l’auto di Marc.

Si voltò di scatto e perse per un attimo di vista l’auto. Quando tornò a guardarla, Seidman era al volante e non si vedeva nessun altro. Questo non significava granché, qualcuno poteva starsene accoccolato tra i sedili, ma l’inizio sembrava comunque buono.

Seidman parcheggiò, spense il motore e aprì lo sportello. Heshy accostò il microfono alla bocca.

«Pronto, Pavel?»

«Sì.»

«È solo» disse, questa volta a beneficio di Lydia. «Comincia pure.»

«Parcheggia vicino al bar, esci e vai a piedi fino alla rotonda.»

La rotonda, ricordavo, era quella intitolata a Margaret Corbin. Appena arrivato la prima cosa che notai, anche al buio, furono i colori vivaci del campo giochi per bambini all’incrocio tra Fort Washington Avenue e la Centonovantesima Strada. Mi era sempre piaciuto, quel campo giochi, ma ora non sopportavo il suo giallo e blu accesi. Pensai a me stesso nelle vesti di ragazzo di città. Quando abitavo nelle vicinanze, immaginavo di vivere in questo quartiere, anche perché mi sentivo troppo raffinato per le periferie residenziali di soli bianchi, e naturalmente ciò significava che avrei portato i miei bambini proprio in quel parco. Lo considerai un presagio, ma chissà di che cosa.

«Alla tua sinistra c’è una stazione della metropolitana» gracchiò la voce al telefono.

«Okay.»

«Scendi le scale e vai all’ascensore.»

Avrei dovuto aspettarmelo. Mi stava mandando nell’ascensore per andare a prendere il treno della linea A. Per Rachel seguirmi sarebbe stato difficile, se non impossibile.

«Sei per le scale?»

«Sì.»

«In fondo a destra troverai un cancello.»

Lo conoscevo, sapevo che portava a un altro parco, più piccolo, che era aperto solo per il fine settimana. Veniva usato soprattutto per i picnic e c’erano dei tavoli da ping-pong, ma se si voleva giocare bisognava portarsi da casa racchetta, palline e retina. C’erano panche e aree attrezzate con tavolini, e i ragazzi se ne servivano per le loro festicciole di compleanno.

Il cancello, ricordavo, era sempre sprangato.

«Sono arrivato» dissi.

«Accertati che nessuno ti veda, poi spingi il cancello, entra e richiuditelo subito alle spalle.»

Sbirciai oltre il cancello: il parco era nero e la luce dei lampioni lontani diffondeva un debole chiarore. La sacca con i soldi pesava e me la sistemai sulla spalla. Mi voltai a guardare. Nessuno. Girai lo sguardo a sinistra, gli ascensori della metropolitana erano immobili. Misi la mano sul cancello, il lucchetto era stato tranciato. Diedi un’occhiata attorno velocemente, come mi aveva detto di fare la voce metallica.

Non c’era traccia di Rachel.

Il cancello scricchiolò quando lo aprii, e l’eco sembrò squarciare il silenzio della notte. Scivolai dall’altra parte, e fui inghiottito dall’oscurità.

Rachel sentì l’auto dondolare quando Marc scese.

Aspettò solo un minuto, ma le sembrò che fossero passate due ore. Quando decise che era il momento di azzardare, sollevò il cofano di qualche centimetro e sbirciò fuori.

Non vide nessuno.

Si era portata una pistola, una Glock.22 calibro 40 semiautomatica, l’arma di ordinanza dei federali, oltre agli occhiali per la visione notturna, i Rigel 3501 Gen. 2+. In tasca aveva il palmare m grado di leggere i segnali del Q-Logger.

Non temeva di essere vista, ciò nonostante sollevò il cofano il minimo necessario per rotolare fuori, e rimase immobile a terra per qualche istante. Allungò una mano dentro il bagagliaio e prese pistola e occhiali, poi richiuse silenziosamente il cofano.

Le operazioni sul campo le erano sempre piaciute, o quanto meno l’addestramento per tali operazioni. Aveva partecipato a poche missioni come quelle che si vedono nei film d’azione, perché di solito gli appostamenti venivano effettuati con strumentazioni sofisticate, a bordo di furgoni trasformati in cabine di regia, o con aerei spia e fibre ottiche. Difficilmente ci si ritrovava a strisciare di notte in tuta nera e con il viso ricoperto di nerofumo.

Si accucciò contro la ruota posteriore e vide in lontananza Marc che risaliva il sentiero. Infilò la pistola nella fondina e agganciò i visori notturni alla cintura. Poi, tenendosi chinata, cercò di individuare una posizione più elevata. C’era ancora luce a sufficienza e non aveva bisogno degli occhiali.

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