La sua voce dissipò d’improvviso l’alone di incertezza che mi avvolgeva. «Marc?»
«Che c’è?»
«Sono sempre convinta che dovresti metterti quel giubbotto antiproiettile.»
«No.»
Ero stato troppo brusco. O forse no. Rachel s’infilò nel bagagliaio e chiuse il cofano dall’interno. Io misi la sacca di tela con i soldi sul sedile accanto a me, poi premetti il pulsante del telecomando della porta, fissato sotto l’aletta parasole, e misi in moto.
Cominciava l’avventura.
Quando Tickner aveva nove anni la madre gli aveva comprato un libro di illusioni ottiche. C’era, per esempio, un disegno che raffigurava un’anziana signora con un gran nasone: ma poi, guardando più attentamente, la vecchia si trasformava in una ragazza con la testa. A Tickner quel libro era piaciuto da matti. Qualche anno dopo era passato agli “Occhi Magici”, restando a fissarli fin quando in quel turbinio di colori appariva il cavallo o quel che c’era. A volte l’operazione richiedeva molto tempo, e veniva da chiedersi se effettivamente sarebbe comparso qualcosa. Poi, all’improvviso, ecco l’immagine.
In quel caso stava succedendo lo stesso.
Ci sono momenti nel corso di un’indagine, lo sapeva bene, in cui tutto risulta alterato come in quelle vecchie illusioni ottiche. Guardi una realtà ed è sufficiente un leggero spostamento perché questa cambi. Nulla è come appare.
Tickner non aveva mai accettato le varie teorie sul caso Seidman, assomigliavano troppo a un libro a cui mancasse qualche pagina.
Non aveva avuto a che fare con molti omicidi, nella sua carriera, perché di solito venivano lasciati alla polizia locale. Ma conosceva moltissimi investigatori che si occupavano di omicidi e i migliori erano sempre quelli un po’ spostati, dal temperamento eccessivamente melodrammatico e dalla fantasia talmente sfrenata da rasentare il ridicolo. Tickner li aveva uditi parlare di un certo momento, durante le indagini, nel quale la vittima “allunga un braccio” dalla tomba. La vittima in qualche modo “parla” e indica con la mano l’assassino. Lui ascoltava quelle assurdità e annuiva educatamente. Gli sembravano delle esercitazioni iperboliche, frasi prive di senso che i poliziotti dicono perché la gente se le beve con avidità.
La stampante continuava a ronzare. Tickner aveva già visto dodici foto.
«Quante ce ne sono ancora?» chiese.
Dorfman fissò lo schermo del computer. «Sei.»
«Come queste?»
«Più o meno. Voglio dire, sempre della stessa persona.»
L’agente speciale abbassò lo sguardo sulle foto. In tutte effettivamente compariva la stessa persona ed erano in bianco e nero, scattate all’insaputa del soggetto e probabilmente da una certa distanza, con il teleobiettivo.
La storia del braccio che spunta dalla tomba non sembrava più tanto stupida. Monica Seidman era morta da diciotto mesi e il suo assassino era in libertà. E adesso che ogni speranza di identificarlo era stata abbandonata sembrava che lei si fosse alzata dalla tomba puntando un dito. Tickner guardò un’altra volta, cercando di capire.
Il soggetto di quelle foto, la persona che Monica Seidman stava indicando era Rachel Mills.
Quando imbocchi in direzione nord il raccordo orientale della New Jersey Turnpike, ti sembra che lo skyline notturno di Manhattan brilli soltanto per te. Come per tutti coloro che la vedono quasi ogni giorno, per me quella era un tempo un’immagine scontata. Ora non più. Dopo l’11 settembre per un po’ mi è sembrato di vedere ancora le Torri. Erano come delle luci intense fissate troppo a lungo, così che, chiudendo gli occhi, rimanevano per qualche tempo fissate nella retina. Ma come le macchie solari anche quelle immagini alla fine svanivano. Ora è diverso. Quando percorro questa strada guardo sempre di proposito, e lo stavo facendo anche quella sera, ma a volte non riesco a ricordare esattamente dove sorgevano le Torri. E questo mi manda in bestia più di quanto riesca a spiegare a parole.
Imboccai, come faccio sempre, la carreggiata inferiore del George Washington Bridge, e a quell’ora non c’era traffico. Al casello oltrepassai il Telepass e riuscii a distrarmi. Alla radio incappai in due stazioni in cui non facevano che parlare. La prima era una di quelle che trasmettono soltanto sport, e un sacco di uomini che si chiamavano tutti Vinny da Bayside telefonavano per lamentarsi della mediocrità degli allenatori e per dire che loro avrebbero saputo fare molto meglio quel lavoro. Nell’altra c’erano due imitatori penosi di Howard Stern, che trovavano particolarmente divertente la scenetta di una matricola di college che telefona alla madre per annunciarle di avere un tumore ai testicoli. Per quanto non fossero divertenti, mi aiutarono a distrarmi un po’.
Rachel era nel bagagliaio, il che, a pensarci bene, era totalmente folle. Presi il cellulare, premetti il tasto di chiamata e udii subito la voce metallica. «Prendi la Henry Hudson in direzione nord.»
Mi portai l’apparecchio alla bocca, come fosse stato un walkie-talkie. «Okay.»
«Avvertimi appena arrivi all’Hudson.»
«D’accordo.»
Mi spostai sulla corsia di sinistra. La zona mi era abbastanza familiare, avevo vinto una borsa di studio per un corso post-laurea al New York Presbyterian, che si trova dieci isolati più a sud. Zia e io avevamo diviso un appartamento con Lester, un cardiologo, in un edificio art déco situato in fondo a Fort Washington Avenue, nella parte più settentrionale di Manhattan. Quando ci abitavo io, quella zona era conosciuta come il punto più a nord di Washington Heights, ma da qualche tempo mi sono accorto che le agenzie immobiliari l’hanno ribattezzata “Hudson Heights” per differenziarla, sia nel nome sia nel valore commerciale, dalle sue umili radici.
«Okay, sono sull’Hudson» dissi.
«Prendi la prossima uscita.»
«Fort Tryon Park?»
«Sì.»
Anche quell’area non mi era nuova. Fort Tryon sembra sospeso come una nuvola sul fiume Hudson, è un dirupo tranquillo e frastagliato, con il New Jersey a ovest e il Riverdale-Bronx a est. Il parco è un miscuglio di panorami diversi: sentieri di pietra ruvida, fauna di un’era ormai passata, terrazze di pietra, recessi di mattoni e cemento, fitta vegetazione, pendii di roccia, erba. D’estate trascorrevo giorni e giorni sui suoi prati verdi, in pantaloncini e maglietta, insieme a Zia e a qualche testo di medicina intonso. Mi piaceva in particolare prima del tramonto, d’estate. Quella luce arancione che inonda il parco ha un che di etereo.
Misi la freccia e imboccai la rampa d’uscita. Non si vedevano altre auto, luci ce n’erano poche. Il parco di sera chiudeva, ma la strada che l’attraversava rimaneva accessibile. La mia auto s’inerpicò sbuffando sulla ripida salita ed entrò in quella che sembrava una specie di fortezza medievale. Il Chiostro, un ex monastero in stile francese ora incorporato dal Metropolitan Museum of Art, è ancora in buone condizioni. Ospita una splendida collezione di manufatti medievali, o almeno così mi dicono. Sarò stato un centinaio di volte in questo parco, senza mai entrarci.
Era una zona adatta, pensai, per la consegna di un riscatto. Uno spazio scuro, silenzioso, pieno di sentieri serpeggianti, di dirupi rocciosi, di profondi crepacci, di fitte macchie, di vialetti asfaltati e sterrati. Ci si poteva perdere, in quel parco. Ci si poteva nascondere per giorni e giorni senza farsi trovare.
«Sei già lì?» mi chiese la voce metallica.
«Sono a Fort Tryon, sì.»
«Parcheggia vicino al bar, esci dall’auto e vai a piedi fino alla rotonda.»
Il viaggio nel bagaglio era rumoroso oltre che scomodissimo. Rachel si era portata una coperta imbottita, ma per il rumore c’era ben poco da fare. Nella borsa aveva una torcia elettrica, ma non aveva bisogno di accenderla: per lei l’oscurità non era mai stata un problema.
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