Robert Wilson - L'uomo di Siviglia

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Ossessioni. Ricordi rimossi, un'angoscia crescente, poi, all'improvviso, una scintilla che scatena un terrore sepolto in un angolo oscuro dell'anima. Raúl Jiménez, personaggio ambiguo legato al bel mondo di Siviglia, ma anche alla malavita e ai ricordi delle atrocità della Guerra civile, muore all'inizio della Semana Santa, il momento dell'anno più denso di religiosità e passione in una Spagna tutt'altro che solare, anzi, enigmatica e inquieta. L'ispettore capo Javier Falcón capisce ben presto di trovarsi di fronte a un crimine rituale, quasi iniziatico: l'assassino ha voluto impartire alla sua vittima una “lezione di vista”. Jiménez è stato legato e costretto a guardare una videocassetta, finché il suo cuore non ha ceduto…

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Dieci minuti dopo era di nuovo in ascensore. Il peso del comando gli era stato tolto dalle spalle, per compassione gli avevano concesso due settimane di congedo e al suo ritorno avrebbe dovuto sottoporsi a un controllo psicologico completo. Non aveva aperto bocca, era privo di difese. Nel suo ufficio mise in ordine la scrivania, trovando che non vi erano oggetti personali, solo qualche lettera che si infilò in tasca, e la rivoltella di ordinanza che avrebbe dovuto consegnare, ma che non restituì.

Alle sei del pomeriggio assistette al funerale di Pepe. Era presente tutta la comunità delle corride, con Paco in uno stato inconsolabile e incontrollabile, che singhiozzava rumorosamente, il viso nascosto tra le mani, le spalle scosse, gravate dal peso della tragedia. Piangevano tutti, i partecipanti al funerale, i lavoratori del cimitero, i fiorai, i passanti, i parenti in visita alle tombe, e il dolore era sincero; ma non era per Pepe Leal, uno sconosciuto o quasi per quella gente, dato che non era un grosso nome delle corride. Là, in piedi, soffrendo a occhi asciutti tra gente che piangeva e tirava su col naso, Javier capì la vera ragione di quel dolore: era il pianto per una perdita personale. Si piangevano la gioventù, le prospettive, la salute, il talento perduti. La morte di Pepe Leal aveva, perlomeno temporaneamente, messo la parola fine alla possibilità. Perciò Javier trovava di cattivo gusto piangere insieme a loro; e non aveva nemmeno intenzione di fermarsi dopo il funerale, sarebbe andato a casa, alla sua casa ferita e silenziosa e alla pietosa vacanza forzata.

Rimase seduto nel suo studio, ancora con l'impermeabile addosso, scarabocchiando su un foglio con una matita. Voleva andare via. Le corna di Biensolo avevano aperto uno squarcio nella Feria e Falcón voleva essere lontano di lì per sanguinare sulla morte di Pepe. Prese una carta della Spagna, posò la matita su Siviglia e per tre volte la fece ruotare. Ogni volta la punta si rivolse direttamente a sud e a sud di Siviglia non c'era niente, a parte Barbate, un piccolo villaggio di pescatori. Ma al di là di Barbate, al di là dello stretto, c'era Tangeri.

Squillò il telefono, ma Javier non rispose: non aveva intenzione di accettare altre condoglianze.

La mattina seguente preparò la borsa da viaggio, infilandovi anche i diari non ancora letti, trovò il passaporto e chiamò un taxi per la stazione dei pullman alle spalle del Palacio de Justicia. Cinque ore e mezzo più tardi, ad Algeciras, saliva a bordo del traghetto per Tangeri.

La traversata durò un'ora e mezzo, un intervallo di tempo che Falcón trascorse quasi completamente a osservare una versione marocchina di se stesso prendere i dati personali di un gruppetto di sei ragazzi immigrati illegalmente in Spagna e rimpatriati. Erano allegri, i turisti regalavano loro sigarette e gesti di incoraggiamento. Il poliziotto era fermo ma non scortese.

Tangeri gli comparve davanti attraverso la foschia senza far affiorare alcun ricordo. Il lungo inverno piovoso aveva rivestito la campagna circostante di un verde scuro, sontuoso, un colore che Falcón non aveva mai associato al Marocco. Trovò qualcosa di familiare nella cascata di case bianche e sgretolate all'interno delle mura della città vecchia, una cascata che scendeva dalla casbah sulla cima dell'altura fino alla Moschea Grande, in basso. Al di là delle mura la ville nouvelle si era allargata intorno alla baia. Javier cercò di individuare la vecchia casa dove suo padre aveva avuto lo studio, ma era probabilmente nascosta tra i condomini o era stata demolita per lasciare spazio a nuove costruzioni.

Il tassista lo portò dalla banchina all'hotel Rembrandt e cercò di fargli pagare 150 dirham per la corsa. L'antipatica discussione finì in modo disonorevole: metà della somma richiesta cambiò di mano. Al banco della reception, ancora nel suo splendore di marmi anni '50, Falcón ritirò la chiave della camera 422 e salì, portandosi da solo il bagaglio.

L'albergo nel mezzo secolo trascorso aveva sofferto: mancava un pannello di vetro da una porta della camera, la vernice sugli infissi di metallo era scrostata, la mobilia aveva l'aria di essersi rifugiata lì per sfuggire a un marito violento; ma la vista della baia era magnifica e Falcón, seduto sul letto, rimase a contemplarla a bocca aperta mentre pensieri di sradicamento totale gli attraversavano la mente.

Uscì per mangiare qualcosa, sapendo che in quel paese si cenava presto, ma scoprì che il Marocco era indietro di due ore rispetto alla Spagna e alle sei del pomeriggio era già tutto chiuso. S'incamminò verso place de France e di lì, passando davanti all'hotel El Minzah, arrivò al Grand Soco ed entrò nella medina attraverso il mercato, che lo portò in una strada non lontana dalla cattedrale spagnola. Da quel punto cercò di ricordare la strada per arrivare alla vecchia casa di famiglia, una via che doveva aver percorso migliaia di volte con sua madre. Ma non ricordava nulla e ben presto si smarrì nel labirinto di vicoli finché, assolutamente per caso, si ritrovò davanti a un edificio che riconobbe.

Aprì la porta una domestica che parlava soltanto arabo. Scomparve. Si presentò poco dopo un uomo in un burnus bianco con babbucce di pelle ai piedi. Falcón si presentò, spiegò chi era e l'uomo rimase stupefatto. Era stato suo padre a comprare la casa, direttamente da Francisco Falcón. Javier fu accolto cordialmente e l'uomo, Mohammed Rachid, gli fece visitare l'abitazione, la cui struttura pareva esattamente com'era un tempo, con il fico al suo posto e la strana stanza dal soffitto alto con la finestra in cima.

Rachid invitò Falcón a cena. Davanti a una grande terrina di cuscus, Javier spiegò che sua madre era morta e si informò sulla possibilità che qualche vicino di quel tempo fosse ancora vivo. Venne mandato in giro un ragazzo con le istruzioni e dopo pochi minuti era già di ritorno con un invito per il caffè nella casa accanto.

«La cosa insolita è che si presentarono due medici», disse il vecchio, «e che ci fu una discussione davanti alla porta su chi dovesse vedere la paziente. Era accaduto che sua madre, signore, era già morta e suo padre aveva chiamato il solo medico che conoscesse, cioè il suo, un tedesco. Il medico di sua madre, uno spagnolo, disse di non avere niente in contrario e stava per andarsene quando la donna del Rif, la cameriera di sua madre, uscì di corsa annunciando che la padrona era stata avvelenata. Reggeva un bicchiere in mano, diceva di averlo trovato accanto al letto della signora. Nessuno le credeva e lei, per convincerli, bevve un sorso del liquido. Suo padre le strappò il bicchiere di mano e la donna, in una scena drammatica, cadde a terra. Tutti erano costernati, il dottore spagnolo si precipitò verso di lei, ma era tutta scena. Non era morta, non c'era nessun veleno nel bicchiere. La cameriera venne giudicata un'isterica e mandata via.»

Falcón non riuscì a controllare il tremito delle mani, nemmeno incrociando le dita con forza. Il sudore gli colava sulla faccia e la nausea lo assaliva ascoltando il racconto della tragedia, un racconto riferito a cuor leggero. Si alzò barcollando dai cuscini sul pavimento, rovesciò la tazzina del caffè che non aveva bevuto. Mohammed Rachid si alzò a sua volta per aiutarlo.

Arrivarono insieme fino al posteggio del taxi di Grand Soco e una Mercedes ammaccata lo riportò all'hotel Rembrandt. Una volta uscito da quella casa, nella medina, aveva ritrovato la calma, aveva controllato il panico. Era successo soltanto che il racconto espresso con bontà dal vecchio gli aveva riportato tutto quanto alla memoria. L'orrore di quella mattina. Sua madre morta nel letto e l'indecoroso tumulto all'esterno. Sì, rammentava… eppure vi erano ancora spazi vuoti e lui non aveva voluto che quell'uomo continuasse, perché… Non sapeva perché. Aveva soltanto voluto scappare via di lì il più in fretta possibile.

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