«Vogliate firmare la ricevuta.»
«Cosa c’è dentro?» chiese Fandorin apponendo la sua firma.
Lizanka guardava con curiosità l’involto, e non mostrava il benché minimo desiderio di lasciare il marito solo con il corriere.
«Non è notificato», rispose l’ufficiale stringendosi nelle spalle. «Quattro libbre di peso. Da voi si celebra un lieto evento? Magari è legato a questo? In ogni caso, le mie congratulazioni personali. Qui c’è un altro pacchetto che, probabilmente, chiarirà tutto.»
Si tolse dal risvolto della manica una piccola busta priva di intestazione.
«Posso andare?»
Erast Petrovič annuì, dopo avere controllato il timbro sulla busta.
Eseguito il saluto, il corriere militare si voltò di scatto e uscì.
Nella stanza immersa nell’ombra c’era un gran buio, e Fandorin, nascondendo cammin facendo la busta, si avvicinò alla finestra che dava direttamente su via Malaja Nikitskaja. Lizanka abbracciò il marito alle spalle, gli respirò sull’orecchio.
«Allora, cos’è? Congratulazioni?» chiese impaziente e, alla vista di una cartolina lucida con due anellini d’oro, esclamò: «Proprio così! Ohi, che carino!»
In quel momento Fandorin, attratto da un movimento veloce dietro la finestra, alzò gli occhi e si accorse che il corriere militare si stava comportando in un modo un po’ strano. Era corso veloce per i gradini, era saltato di slancio sulla carrozza leggera che lo aspettava, e aveva gridato al cocchiere: «Andiamo! Nove! Otto! Sette!»
Il cocchiere agitò la frusta, si voltò un attimo. Era un cocchiere come tanti: cappello a cupola alta, barba brizzolata, solo gli occhi erano insoliti, molto chiari, quasi bianchi.
«Fermo!» gli gridò furioso Erast Petrovič, e senza pensarci sopra scavalcò il davanzale.
Il cocchiere schioccò la frusta, e la coppia di cavalli neri come corvi partì al trotto.
«Fermo o sparo!» gridò a squarciagola Fandorin mentre correva, anche se non aveva nulla con cui sparare: in occasione delle nozze la fedele Herstal era rimasta in albergo.
«Erast! Dove vai?»
Fandorin si voltò indietro di corsa. Lizanka si sporgeva dalla finestra, sul suo visino era dipinta la più completa perplessità. Un attimo dopo dalla finestra si sprigionarono fuoco e fumo, si ruppero i vetri, ed Erast Petrovič venne scaraventato a terra.
Per un po’ fu tutto silenzioso, buio e tranquillo, poi la brillante luce diurna lo colpì agli occhi, nelle orecchie sentì un rombo assordante, e Fandorin capì di essere vivo. Vide l’acciottolato del marciapiede, ma non riusciva a capire perché l’aveva proprio davanti agli occhi. Guardare la pietra grigia era ripugnante, allora spostò lo sguardo da un’altra parte. Ancora peggio: lì c’era una pallina di sterco equino e accanto qualcosa di sgradevolmente bianco, che luccicava con due cerchietti dorati. Erast Petrovič con un balzo si alzò, lesse una riga vergata con una calligrafia grande, démodé, con uncini e complicati tratti di penna:
My Sweet Boy, This is a Truly Glorious Day!
Il senso di queste parole non arrivò alla sua mente annebbiata, tanto più che l’attenzione del contuso fu attratta da un altro oggetto, posato davanti a lui sul marciapiede e che irraggiava allegre scintille.
Dapprima Erast Petrovič non capì di cosa si trattava. Pensò solo che per questo non poteva esserci posto sulla terra. Poi vide meglio: il luccichio veniva dal cerchietto d’oro all’anulare di un sottile avambraccio di ragazza strappato al gomito.
Lungo la promenade di Tverskoj, a passi rapidi e incerti, senza vedere nessuno attorno a sé, stava passando un giovane molto elegante ma spaventosamente sciatto: un frac costoso ma gualcito, una cravatta bianca ma sporca, nel risvolto un polveroso garofano bianco. I passanti si facevano da parte e accompagnavano lo strano soggetto con occhiate curiose. E non per via del pallore mortale di quel dandy, come se non ce ne fossero abbastanza in giro di tisici, e nemmeno perché, senza ombra di dubbio, era ubriaco da morire (barcollava da un lato all’altro): cose di questo genere se ne vedono di continuo. No, l’attenzione dei passanti, soprattutto delle signore, era attratta da una intrigante particolarità della sua fisionomia: in tutta la sua evidente giovinezza quel libertino aveva le tempie completamente bianche, come gelate dalla brina.