«Ha le convulsioni, sir», disse Andrew aprendo per la prima volta la bocca. «Non starà rinvenendo?»
«Impossibile», tagliò corto il professore. «Il narcotico basta almeno per due ore. Leggeri movimenti convulsivi sono normali. Il pericolo, milady, è uno solo. Non ho avuto abbastanza tempo per calcolare esattamente la forza necessaria alla carica. A darne più del necessario si uccide il paziente o se ne fa un idiota permanente. Se non se ne dà abbastanza, nella corteccia si conservano vaghe immagini residuali, che sotto l’influenza di uno stimolante esterno potrebbero anche conformarsi in una reminiscenza precisa.»
Dopo un silenzio, la baronessa disse con chiaro rincrescimento: «Non possiamo correre rischi. Mandate la corrente più forte».
Si udì uno strano ronzio, e poi uno sfrigolio che mandò brividi per la pelle di Fandorin.
«Andrew, rasate due cerchietti — uno qui e l’altro qui», disse Blank, toccando i capelli del paziente. «Ne ho bisogno per attaccare gli elettrodi.»
«No, meglio che di questo si occupi Timofej», dichiarò decisa lady Esther. «Io invece esco. Non voglio vedere, sennò di notte non dormo. Andrew, tu vieni con me. Devo scrivere dei dispacci urgenti, poi me li porti al telegrafo. Bisogna prendere misure precauzionali, perché fra un po’ noteranno l’assenza del nostro amico.»
«Sì sì, milady, mi sareste solo d’impiccio», rispose distrattamente il professore, occupato con le preparazioni. «Vi comunicherò subito il risultato.»
Le tenaglie d’acciaio che stringevano i gomiti di Erast Petrovič finalmente si allentarono.
Non appena dietro la porta il rumore dei passi che si allontanavano si fu attutito fino a spegnersi, Fandorin aprì gli occhi, con uno scatto liberò le gambe e, piegate di scatto le ginocchia, diede un calcio nel petto di Timofej, così forte, che lo fece volare in un angolo. Un attimo dopo Erast Petrovič dal tavolo era già saltato giù per terra e, socchiudendo gli occhi per la luce, strappò da sotto la falda la sua Herstal segreta.
«Non un passo! Vi uccido!» sibilò con piglio vendicativo il resuscitato, e in quell’attimo, in effetti, aveva voglia di sparare a entrambi, sia a Timofej che sbatteva ottusamente gli occhi, sia al professore pazzo, che per l’incredulità era rimasto immobile con in mano due pinze d’acciaio. Da queste pinze partivano dei cavi sottili collegati a una macchina complicata, che baluginava di fiammelle. Nel laboratorio c’erano diverse cosette curiose, ma mancava il tempo di esaminarle.
Il guardaportone nemmeno cercò di alzarsi da terra e si limitò a farsi ripetuti segni di croce, ma con Blank non andò così bene. A Erast Petrovič era sembrato che lo scienziato non si fosse affatto spaventato, ma fosse solo infuriato per l’ostacolo imprevisto che poteva interrompere l’esperimento. In testa gli sfrecciò questo pensiero: adesso mi si lancia addosso! E il desiderio di uccidere si rimpicciolì, si dissolse senza lasciare traccia.
«Poche sciocchezze! Restate dove siete!» esclamò Fandorin con voce appena tremante.
In quello stesso istante Blank ruggì: «Schweinhund! Du hast alles verdorben!» e si slanciò in avanti, picchiando col fianco il bordo del tavolo.
Erast Petrovič premette il grilletto. Nulla. La sicura! Fece scattare il bottone. Premette due volte di seguito. Dadach! Scoppiò un duplice scroscio, e il professore cadde bocconi, con la testa sotto i piedi di chi gli aveva sparato.
Temendo un attacco da dietro, Fandorin si girò bruscamente, pronto a sparare ancora una volta, ma Timofej si era rannicchiato con la schiena contro al muro e con voce piagnucolosa prese a dire: «Vostra eccellenza, non uccidetemi! Non era la mia volontà! Nel nome di Cristo nostro Signore! Vostra eccellenza!»
«Alzati, canaglia!» urlò imbestialito e assordato dal colpo Erast Petrovič. «Avanti, marsch!»
Spingendo il portinaio nella schiena con la canna, lo mandò nel corridoio, poi giù per le scale. Timofej procedeva a passettini minuti, lamentandosi ogni volta che la pistola gli premeva la spina dorsale.
Passarono di corsa dalla sala della ricreazione, e Fandorin cercò di non guardare nelle porte aperte delle classi con affacciati gli insegnanti e silenziosi bambini in uniformi azzurre che gli spuntavano dietro le schiene.
«Polizia!» gridò al vuoto Erast Petrovič. «Signori insegnanti, vietato far uscire i bambini di classe! Vietato uscire anche a voi!»
Attraverso la lunga galleria, sempre con quei passettini mezzi di corsa, raggiunsero l’annesso. Giunti alla porta bianca e dorata, Erast Petrovič spinse Timofej con tutte le sue forze; il guardaportone spalancò le ante con la fronte reggendosi appena sulle gambe. Non c’era nessuno. Vuoto!
«Avanti, marsch! Apri ogni porta!» ordinò Fandorin. «E tieni conto di questo: prova solo a fare qualcosa, e ti ammazzo come un cane.»
Il portinaio batté appena le mani e trotterellò indietro nel corridoio. In cinque minuti ispezionarono tutte le stanze del primo piano. Non c’era un’anima, salvo in cucina dove, buttato di peso col petto sul tavolo e col viso morto voltato da una parte, dormiva di un sonno eterno quel poveraccio del vetturino. Erast Petrovič guardò solo di sfuggita le briciole di zucchero sulla sua barba, la pozzanghera del tè versato, e ordinò a Timofej di procedere oltre.
Al secondo piano si trovavano i due dormitori, il guardaroba e la biblioteca. La baronessa e il suo servo non erano nemmeno lì. Ma dove diavolo erano finiti? Avevano sentito gli spari e si erano rimpiattati da qualche parte nell’esthernato? O si erano nascosti ed erano fuggiti?
Su tutte le furie, Erast Petrovič agitò la mano con cui teneva la rivoltella, e all’improvviso echeggiò uno sparo. La pallottola rimbalzò dal muro con un fischio e uscì dalla finestra, lasciando sul vetro una stellina ben disegnata coi raggi tutt’intorno. Diavolo, la linguetta era mollata, quindi lo scarico era facile, si ricordò Fandorin, e scosse la testa, per liberarsi dal suono nelle orecchie.
Su Timofej lo sparo inatteso produsse un effetto magico: il portinaio si buttò in ginocchio e prese a piagnucolare: «Vo… vostra ecce… vostra eccellenza illustrissima… Non toglietemi la vita! M’ha traviato il diavolo! Tutto, tutto, come dal confessore! Ho i bambini, la moglie malata! Vi ci porto! Quant’è vero che è santo Dio vi ci porto! Sono in cantina loro, nel sotterraneo segreto! Vi ci porto, solo non dannate un’anima!»
«In quale cantina?» chiese minaccioso Erast Petrovič, e sollevò la rivoltella, come se davvero stesse per attuare una resa dei conti.
«Seguitemi, vogliate seguirmi.»
Il guardaportone si rialzò sulle gambe e, guardatosi attorno un attimo, riaccompagnò Fandorin al primo piano, nello studio della baronessa.
«L’ho visto per caso una volta… Noi non avevamo il permesso di avvicinarci. Ci davano poca fiducia, a noi: gente russa, anime ortodosse, mica di fatta inglese», disse Timofej facendosi il segno della croce. «Solo quel loro Andrej aveva accesso laggiù, mentre noi, niente.»
Corse dietro la scrivania, girò una manopola sul secrétaire, e quello si spostò d’improvviso da una parte, scoprendo una piccola porta di rame.
«Apri!» ordinò Erast Petrovič.
Timofej si fece il segno della croce altre tre volte e spinse la porticina. Questa si aprì silenziosamente e mostrò una scala che portava in basso, nel buio.
Spingendo il guardaportone nella schiena, Fandorin cominciò a scendere facendo attenzione. La scala terminava contro una parete, ma dietro un angolo a destra iniziava un basso corridoio.
«Vai, vai!» disse Erast Petrovič incalzando Timofej che temporeggiava.
Svoltarono dietro l’angolo, in una tenebra fittissima. Si sarebbe dovuto prendere una candela, pensò Fandorin, e infilò la mano sinistra in tasca alla ricerca dei fiammiferi, ma davanti di colpo ci fu uno scoppio e un boato.
Читать дальше