Laura Mancinelli - I dodici abati di Challant

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I dodici abati di Challant: краткое содержание, описание и аннотация

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Sospesi tra storia e invenzione in un Medioevo che sembra vero, sono qui raccolti in un unico volume tre romanzi di Laura Mancinelli, in cui l'autrice approda a una visione fantastica e affettuosamente ironica della tradizione e della società medioevale: "I dodici abati di Challant", dove, in una cornice di ironia mondana e gaudente, dodici monaci ricevono l'incarico di sorvegliare un feudatario che eredita un castello con la clausola di mantener fede a un maligno obbligo di castità; "Il miracolo di Santa Odilia", immagine della vita che si afferma in chiave religiosa, ma non trascendente, attraverso la storia di due Odilie: la prima devota e pia, la seconda giovane e bella; e infine, conclusione ideale di questa metafora ideale, "Gli occhi dell'imperatore", dove una contessa piemontese, un cavaliere-musico-poeta e l'imperatore Federico II, ormai prossimo alla morte, partecipano a un affascinante percorso di avventure e sentimenti, che è anche un intreccio di entusiasmo, rassegnazione e senso del destino.

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- Ma ci vorrebbe così poco, - si ostinava la damigella, - che cosa gli costa? Si starebbe così bene... e non se ne pentirebbe, ne sono sicura. E invece che cosa fa? Mi sfugge, come se avesse paura di me. - E si asciugava gli occhi e il naso con un bel fazzoletto ricamato. Ecco vedete, madonna, - diceva spalancando la finestra e sporgendosi fuori, - vedete, eccolo là che passeggia con gli abati, a tal punto mi disprezza che preferisce la compagnia di quelli... - e mentre la marchesa si affacciava a sua volta alla finestra e diceva: - Ma siete sicura, Maravì, che sia proprio lui? Madonna Maravì in un impeto di sdegno aveva afferrato una torre degli scacchi e l'aveva scagliata furiosamente dalla finestra. L'uomo, colpito, cadde e rimase immobile. In quel momento si udì sulla porta della stanza la voce di ser Goffredo che diceva al duca: - Effettivamente una difficoltà c'è, monsignore. Qui non abbiamo scimmie. - E mentre il duca obiettava: - E gli orsi? Un intestino d'orso non potrebbe andare ugualmente bene? madonna Maravì si voltò di scatto e rimase senza fiato.

- Avete sbagliato persona, Maravì, - diceva la marchesa sporgendosi dalla finestra. - Se la vista non mi inganna avete colpito l'abate Foscolo.

Il giorno seguente questo nuovo lutto che così crudelmente andava ad aggiungersi alla fatale serie che già aveva colpito il castello, la marchesa sedeva con la damigella a quella stessa finestra e diceva: - Vedete, Maravì, l'amore è un rapporto, non un possesso. E un rapporto è reciproco e libero, non si impone. Né si può pretendere che duri nel tempo: può durare oppure essere brevissimo. Ma nel momento in cui si attua realizza la libertà di tutti e due gli amanti. Il possesso invece dura anche tutta la vita, ma uno dei due è schiavo. - E dopo una pausa soggiunse: - Vedete quelle orme che si perdono verso la valle? sono di qualcuno che se n'è andato. Ma potrebbe anche tornare. E se torna, è perché lo vuole. - Così dicendo la marchesa prese un grappolo d'uva dolcissimo e appassito da un cestino di frutta e cominciò a piluccarlo porgendolo contemporaneamente a madonna Maravì. Mentre questa, asciugandosi gli occhi, allungava dubitosa la mano alla dolce leccornia, arrivò velocissimo come un piccolo topo il piccolissimo Cicco e altrettanto velocemente prese a piluccare dal grosso grappolo succoso i più succosi chicchi e i più maturi. E per raggiungerli meglio si arrampicò in grembo alla marchesa. Mirò, dopo aver dato una sbirciatina, si mise a sonnecchiare. L'uva, ai gatti, non è mai piaciuta.

Messer Favonio

E poi venne il favonio che spezza il ghiaccio atroce in un giocoso alternarsi di vento e primavera e desta gli animali dal sonno invernale e li fa uscire dal chiuso come cuccioli ebbri in cerca di sole. Nessuno se l'aspettava, nessuno l'aveva previsto. Marzo era incominciato tra nebbia e gelo. Ma, un mattino, il favonio era arrivato. Nebbia e gelo scomparvero, le grondaie del castello sgocciolarono allegramente la vecchia neve dei tetti, la corte divenne un impasto di fango e neve fondente. Il cielo era di un tenero azzurro solcato di strisce bianche e i capelli della marchesa, quando s'affacciò alla finestra, furono investiti da un'ondata d'aria tiepida e molle.

- È il favonio, - disse sorridendo, e issò la bella persona a sedere sul davanzale della finestra. Venafro, che giungeva a cavallo da chissà dove, vide la sua bianca camicia sventolare nell'aria, e sorrise.

In quel momento Cicco correva piangendo nella corte incontro a Venafro, e indicava singhiozzando un punto del tetto. Venafro lo prese in braccio e fissò lo sguardo seguendo il dito del bambino; seguì contrafforti, guglie e grondaie, e scorse, infine, una piccola sagoma nera che si muoveva cautamente tra le lastre di pietra del tetto.

Saliva e scendeva, silenziosa e circospetta in cerca di qualcosa, in traccia di qualcuno.

La tragedia nella vita ha molte facce. Per Cicco aveva la faccia di un gatto traditore, che l'aveva abbandonato solo nel letto per andarsene in cerca di avventure amorose. A nulla valsero i panini di madonna Camilla, né l'uva appassita della bella marchesa. Cicco continuava a singhiozzare avvinghiato al collo di Venafro, il quale, imbarazzatissimo, non trovò di meglio che installare il bambino sul cavallo davanti a sé, e andare in direzione del bosco pietroso chiazzato di sole.

- Vedi, Cicco, è arrivato il favonio, ed è quasi primavera. I gatti vanno in amore; per questo Mirò gira per i tetti in cerca di una gatta.

Il bambino lo guardava con grandi occhi spalancati nel viso bagnato di lacrime.

- Anche gli uomini hanno bisogno d'amore quando soffia il favonio. Ma sono meno saggi dei gatti, e spesso non sanno trovarlo.

Il bambino non gli toglieva gli occhi dal viso, come se capisse.

- Invece Mirò troverà la sua gatta, non dubitare.

Poi scesero dal cavallo e si inoltrarono a piedi nel bosco. Ad un tratto Cicco liberò la sua mano da quella dell'uomo e corse verso un mucchietto di foglie di faggio accumulate dal vento. Si fermò a guardare chino, con le mani sulle ginocchia: il mucchio di foglie sussultava, tremolava, come se qualcosa si muovesse là sotto. Poi il bambino allungò una mano e cominciò a frugare tra le foglie.

All'improvviso qualcosa schizzò fuori dal mucchio verso il bambino.

Cicco fu svelto a serrare le braccia sul petto e si trovò tra le mani un animale dalla pelliccia folta e calda, che gli si agitava tra le braccia e allungava il muso fornito di denti aguzzi verso la sua faccia.

- Bene, Cicco, hai preso una marmotta! - disse Venafro; - e ora che ne farai? la marmotta non verrà mai a letto con te.

Il bambino lo guardò dubbioso, poi, di fronte a un nuovo tentativo dell'animale di mordergli il viso, allentò la stretta e lo lasciò fuggire.

Tornarono insieme al castello, un po' tristi tutti e due. Frattanto le damigelle, mobilitate dalla marchesa, avevano cucito una sagoma di pelliccia nera, con collo, zampe e coda, e l'avevano riempita di paglia. Stavano proprio allora attaccando una palla della stessa pelliccia con due fili di paglia cuciti sul davanti, che voleva essere la testa con i suoi baffi. La diedero al bambino con grandi feste, mentre Venafro sorrideva dubbioso. Cicco prese tra le braccia il gatto di pelliccia guardandolo con aria perplessa; ci strofinò contro una guancia e stette a vedere che cosa succedeva. Non successe niente. Con Mirò invece qualcosa sarebbe successo. Ma poi sembrò pensare che un gatto di pelliccia era sempre meglio che niente, e se ne andò tenendolo tra le braccia.

Il favonio però continuava, Mirò non tornava e Cicco era triste. Anche molti uomini e donne erano tristi e nervosi mentre il bosco sembrava scuotersi baldanzoso e dispettoso nella precoce primavera. E i larici già si riempivano di pennacchi rosati.

Allora Venafro decise di insegnare a Cicco a suonare il flauto. Non fu un'impresa difficile, una volta superata la prima difficoltà tecnica di disporre le dita nei buchi; anzi mai allievo si dimostrò così diligente. Sedevano a lungo insieme, maestro e allievo, mentre la neve aveva ripreso a cadere sul mondo ritornato bianco e grigio. La marchesa spesso stava a guardarli con il viso nel cavo delle mani, i gomiti appoggiati alle ginocchia. In capo a pochi giorni Cicco sapeva suonare un'intera pastorella.

E suonava quasi tutto il giorno girando per il castello o seduto sulla panca nella corte, quando non era troppo freddo, e imparando sempre nuove musiche e sempre meglio. Venafro non avrebbe potuto avere scolaro migliore. Il giorno che ricomparve Mirò, magro, spelacchiato, e con segni visibili di risse notturne, Cicco fu il primo a vederlo e non poté trattenere un grido. Ma poi, invece di slanciarglisi incontro, prese il suo flauto e incominciò a suonare una gavotta: il gatto lo guardava attonito e ammirato avvicinarsi a lui solenne accennando un piccolo passo di danza. Fecero la pace; ma Cicco ormai sapeva suonare il flauto.

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