Rabano volgeva il lungo collo crinito a guardare quella cosa strana che gli stava agganciata ai finimenti e poi guardava negli occhi il suo padrone. Partirono di buon mattino e tutta la corte li salutò augurando buon viaggio. Rabano teneva un trotto veloce, agile e diligente. La marchesa li guardava con un'ombra negli occhi da una finestra della torre.
Fu lei la prima a scorgerli sulla via del ritorno. Agitò un grande velo bianco da quella stessa finestra da cui li aveva visti partire.
Venafro rispose al saluto guardando e sorridendo verso l'alto. Rabano procedeva, questa volta, al piccolo trotto: la slitta apparve subito incredibilmente carica. Servi e scudieri furono lesti ad accorrere, il duca stesso aiutò la saggia pretessa a scendere dalla portantina.
Scesa la pretessa, la slitta apparve ancor più carica di prima: era ingombra infatti di una montagna di ceste e di fagotti, che i servi scaricarono delicatamente e portarono nell'atrio del castello.
L'ultimo, ben avvolto in uno scialle di lana, non era un fagotto, ma un gatto. I servi staccarono la slitta dal cavallo e Venafro partì al galoppo sul suo bel Rabano, fece più volte il giro del cortile e poi fu visto galoppare, abbandonate le briglie, abbracciato il collo stesso del cavallo, velocissimo verso la doppia cinta di mura e saltarle una dopo l'altra come fossero state cespugli. La marchesa sentì un brivido correrle per la schiena, quasi fosse stata lei, sulla nera groppa di Rabano.
La saggia pretessa fu accolta nel castello con tutti gli onori, ristorata con latte caldo e panini al miele, e più tardi condotta nella cucina. Il gatto, che si rivelò per un soriano quasi gigantesco, dall'aria pigra e sussiegosa, la seguiva con passo solenne. I servi si ritirarono; si ritirarono anche gli abati, perché non era chiaro se ciò che lì si sarebbe fatto si conciliava con gli insegnamenti della Chiesa: si ritirarono anche le dame della marchesa temendo che nella cucina si sarebbero svolte scene infernali. Rimasero solo la marchesa, il duca e Venafro. Il duca parlò per primo: - Vedete, signora, - disse indicando il camino, - si dice che vi siano dei diavoli.
- "Si dice" non dice niente, - rispose la pretessa guardando severamente il duca. - O ci sono, o non ci sono. In primo luogo bisogna accertare questo. - Rovistò a lungo in una cesta che aveva portata con sé e ne trasse una lunga cappa intessuta di piume, che dal capo, cui si adattava con una specie di cappuccio, scendeva fino ai piedi avvolgendo nella sua ampiezza il robusto corpo della pretessa e nascondendone i capelli fulvi e crespi. Poi trasse dalla cesta una ciotola di terra e un'ampolla di vetro che conteneva, visibilmente, dell'olio. Poi da un'altra ampolla, il cui contenuto restava misterioso perché il vetro era accuratamente affumicato, versò nella ciotola una specie di acqua chiara. Si accostò al camino, in cui il fuoco era spento, ma le braci ardevano sotto la cenere, mosse dolcemente la ciotola a lungo, in gran silenzio.
- Ci sono, - mormorò, - oh se ci sono! - e mostrò le gocce d'olio che si erano disfatte tutte e tre. Poi improvvisamente gettò il contenuto della ciotola sulla cenere, e tra fumo e scoppiettii si levarono lingue di fuoco e faville a migliaia mentre le braci stridevano e crepitavano.
- Avete visto se ci sono? - si rivolse ai presenti. - E tutti diavoli di prim'ordine. - I presenti guardavano in silenzio. - Ora bisognerà scacciarli. Attizzate il fuoco, aggiungete legna di abete e lasciatemi sola. Io stessa vi chiamerò quando sarà il momento perché possiate vederli con i vostri occhi. - Il duca e Venafro fecero quanto la pretessa aveva ordinato, poi tutti uscirono.
Trafficò a lungo nella cucina deserta e quando richiamò i signori la scena era nuova e sinistra. Tutti i lumi erano stati spenti e la stanza era illuminata solo dal fuoco che ardeva nel camino. Ovunque erano state poste croci fatte con ramoscelli d'ulivo; a pochi passi dalla soglia era stata tracciata una linea che la pretessa indicò agli altri ordinando loro di non oltrepassarla per nessuna ragione al mondo; lei stessa, interamente avvolta nel mantello di piume, stava nel mezzo di un circolo disegnato col carbone sul pavimento e teneva nella sinistra un turibolo che andava agitando e da cui proveniva un forte odore di incenso: nella destra teneva un aspersorio e in terra stava la ciotola. Sulla superficie del liquido galleggiavano quattro foglioline d'ulivo in forma di croce. La grande tavola della cucina era ingombra di ampolle diverse; in mezzo alle ampolle, statuario, stava il gatto della pretessa. Sulla soglia i signori, raccolti in gruppo, guardavano in silenzio. Nel camino crepitava un gran fuoco d'abete.
La pretessa s'inginocchiò nel suo circolo e parve pregare o meditare a lungo. Poi immerse l'aspersorio nella ciotola, si alzò e gridò con voce tonante: - Gabbaal, Sabbaal, Mitternaal, abitanti delle tenebre, vi ordino di andarvene! - e così dicendo spruzzò le fiamme con l'aspersorio. Quelle crepitarono, e si alzarono fino alla sommità della cappa in un nugolo di scintille.
Poi nuovamente la pretessa si inginocchiò, meditò, intinse l'aspersorio, si levò, spruzzò le fiamme e gridò: - Veddaal, Sindaal, Babeldaal, figli delle tenebre, vi ordino di andarvene! - nuovo crepitio, nuove fiamme fino alla sommità della cappa e nuova sventagliata di faville. Infine la pretessa si alzò lasciando in terra il turibolo, sollevò con le due mani la ciotola ancora piena di liquido al di sopra della testa e disse con voce terribile: - Anche tu, chiunque tu sia, signore delle tenebre, con tutti i tuoi figli e i tuoi nipoti, per il potere che il cerchio magico mi dà, ti ordino di lasciare per sempre questo camino e questa casa! - così dicendo scagliò la ciotola nel focolare. Le fiamme si alzarono altissime rombando, le scintille crepitarono in tutte le direzioni e un fumo acre riempì la cucina. In quell'attimo a tutti scorse un brivido per la schiena, e rimasero a guardare affascinati la scena avvolta di fumo, la pretessa immobile in mezzo alla cucina con le braccia alzate, le fiamme che salivano altissime nel camino crepitando in una miriade di scintille. Solo quando il fumo si fu dissipato e le fiamme ritornarono alle dimensioni solite, la pretessa si volse verso la porta e disse: - È finito, signori. Sono fuggiti fino all'ultimo. - Rimise le ampolle, le croci di ulivo e il turibolo nella cesta e s'avviò verso la porta seguita dal suo grosso gatto, spettatore e forse partecipe silenzioso di quel grande mistero.
La marchesa stessa volle accompagnare la pretessa nella stanza che le aveva destinata nel suo stesso appartamento, e si fermò a discorrere alquanto con lei dopo aver posato il lume su un tavolo accanto al quale le due donne sedettero. Ma la marchesa non si era accorta che mentre accompagnava la pretessa era stata seguita dal suo minuscolo gatto nero, un gatto piccolo di razza ma anche, e forse più, perché doveva aver sofferto la fame nei suoi primi giorni di vita. La marchesa lo aveva trovato al margine di un bosco durante una delle sue passeggiate a cavallo verso la fine di ottobre, nascosto sotto le foglie secche d'un albero, dove cercava evidentemente di scaldarsi. Un gatto sperduto, o fuggito da qualche pericolo. Se l'era portato a casa e l'aveva chiamato Mirò. In quei tre mesi che aveva trascorso al castello aveva mangiato moltissimo, ma era cresciuto assai poco, almeno di peso. Era invece cresciuto molto nelle sue propensioni per la vita di società: vale a dire non sopportava di essere ignorato quando c'erano degli ospiti. In questo caso poi l'ospite era un gatto, e grosso per giunta, che ora se ne stava pigramente appallottolato davanti al camino.
Mirò gli fece alcuni giri attorno valutandone il peso, il sesso, l'età e infine l'intelligenza. Stabilito che era del suo stesso sesso, e che quindi erano subito da escludersi certi interessi, stabilito che doveva essere più vecchio di lui e quindi più sapiente, stabilito che era più grosso e quindi più importante, restava da provarne l'intelligenza. E su questo punto Mirò decise di sfidare l'avversario.
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