Nell'atrio era acceso un bel fuoco nell'immenso camino rivestito di rame che moltiplicava il calore e lo spandeva all'intorno. Qui il chierico sedette e parve calmarsi al tepore e al dolce lume del camino, e smise pure di parlare francese mentre una giovane serva gli porgeva una tazza di vino caldo. Allora apparvero i suoi occhi giovani e azzurri, protervi e spocchiosi. Beveva il vino caldo generosamente e il suo volto livido per il freddo riprendeva colore. I servi gli stavano intorno guardandolo con curiosità e ciascuno si domandava, mutamente, come diavolo avesse fatto quel giovane esile a giungere fino al castello senza finire in un burrone, senza cadere esausto e congelato nella neve, senza che il suo misero ronzino scivolasse sul ghiaccio. Tanto più che egli appariva nuovo del posto, nessuno l'aveva mai visto, e certamente non conosceva le strade né i sentieri né i mille pericoli che una valle di montagna cela sotto la neve e dietro la nebbia.
Quando si fu scaldato e rinfrancato chiese dei signori del castello, chi erano e se erano ospitali, e quando si fu informato a sufficienza chiese di essere introdotto alla corte. Qui, senza inginocchiarsi ma solo inchinandosi leggermente di fronte alla marchesa, dichiarò, senza pur rivelare il suo nome, di essere filosofo, laureato a quella gran scuola di logica che è la Sorbona di Parigi. Un mormorio attraversò tutta la corte, donne e signori si guardarono sorpresi e pieni di curiosità: era la prima volta che giungeva in quel castello un filosofo.
Venafro fu il primo a rompere il silenzio: - Intendete dire, messere, che voi avete licenza e potere di aprire una scuola ed insegnarvi logica e teologia? Il filosofo sembrò riflettere un poco guardando il pavimento, poi rispose: - Sì. Diciamo che "avrei" licenza e potere di farlo. - E dopo una pausa soggiunse: - Ma non l'ho.
- Spiegateci meglio, - disse la marchesa prendendolo per una mano e conducendolo ad uno scanno. Il filosofo si accomodò sulle pellicce che ricoprivano lo scanno e alquanto addolcito dal calore delle pellicce e dal gesto benevolo della marchesa, continuò: - Il fatto è, madonna, che sono stato scacciato da Parigi. Anzi sono fuggito. Sono fuggito perché mi hanno condannato per eresia. - Un brivido corse per tutta la compagnia dei signori, poiché ognuno sapeva qual era la sorte che attendeva gli eretici.
- Siete forse seguace di Abelardo? - chiese Venafro.
- Da Abelardo, - rispose il filosofo, - partì il mio pensiero. Egli mi fu maestro, se pur solo attraverso i suoi libri poiché già da tempo si era spenta la sua vita infelice quando io entrai negli studi. Furono proprio i libri di quel logico sommo che mi indussero a dubitare della logica. Intendo dire della logica aristotelica. E precisamente fu là dov'egli dice che una medesima parola può assumere significati diversi in discorsi diversi. Così, onestà, castità, fedeltà non hanno un senso univoco e immutabile, ma relativo all'argomento di cui si parla. Così il sommo Goffredo di Strasburgo, che di Abelardo fu grande ammiratore, poté dire della sua Isotta ch'essa era casta e fedele oltre misura. Ma casta non la direbbe un confessore. E neppure fedele. Voi conoscete il romanzo di Goffredo? - chiese guardando negli occhi la marchesa.
- No, messere, - rispose la marchesa. - E avrei assai caro di conoscerlo. Ma voi non avete libri...
- No, signora; ma avrò cura di raccontarvelo seguendo la memoria che assai bene mi soccorre in queste cose. Alcuni passi vi dirò anche alla lettera. Qui tacque, sempre guardando la marchesa con occhi intenti senza sorriso. Poi distolse lo sguardo e continuò: - Orbene, questo fu il punto che avvinse il mio pensiero, perché se Isotta è casta, e casta è la Vergine Maria, castità si dice di due diverse cose, che possono persino essere tra loro contrastanti. Isotta è casta perché ama sinceramente Tristano e gode del suo corpo interamente; la Vergine Maria perché non conosce amore d'uomo. Ma Isotta è anche adultera perché preferisce all'amore del marito quello dell'amante. E se adulterio e castità posson convivere insieme, cade il principio di non contraddizione. - Il filosofo fece scorrere gli occhi sul suo uditorio, e poi aggiunse: - Voi vedete, signori, che qui cade il primo pilastro della logica.
Tutti assentirono, anche se molti dei presenti più che alla logica pensavano alla favola di Tristano e Isotta, di cui fino a loro era giunta la fama. Venafro, dopo aver un poco riflettuto, disse: - Ma non può esser che un'obiezione, anche se così importante, valga a demolire i fondamenti su cui da sempre s'è costruito ogni sapere.
- Certo, monsignore. Anch'io mi dissi questo, e il mio impegno era da principio di dimostrare che la logica resiste anche a questi difficili passi. E tutto il sapere antico andai indagando per cercare sostegni alla mia fede. Ma là dove credevo trovar sostegni, trovai invece motivi nuovi di dubbio. E più ricercavo, più i dubbi si facevano profondi, come ferite vive nel pensiero. Tutti i fondamenti della nostra logica mi parvero attaccabili in qualche punto, e la certezza in una logica assoluta, un principio di conoscenza indiscutibile e sicuro, che non nell'esperienza umana poggiasse le sue basi, ma a priori ci fosse dato quasi dono di Dio, questa certezza mi sfuggì di mano come pugno di sabbia su cui passi l'onda del mare. - Qui tacque.
- Ma dovrebbesi allora concludere, - intervenne Venafro, - che tutto il sapere costruito su quei fondamenti, è falso? - Non necessariamente. Io non dissi che la logica a noi venuta dal pensiero antico e su cui sempre abbiamo costruito arte e scienza, sia falsa. Essa può essere valida. E può anche non esserlo. È valida nella misura in cui è utile. Ma soprattutto io dico che esistono altre logiche possibili, anch'esse valide, che si basano su principi che non sono quelli di Aristotele e s'accompagnano a procedimenti del pensiero che non sono quelli del nostro mondo occidentale.
- Vi confesso, messere, che sono un po' confuso, - disse Venafro.
- Anche a me sono oscure molte cose, che vado e andrò indagando nei miei lavori. Per ora sono approdato a questa conclusione, in cui credo più che non tengo per dimostrata: ogni tipo di pensiero segue una "sua" logica, ogni comunità di genti, ogni tempo, ogni cultura, ha un "suo" tipo di pensiero. Il fine che mi propongo è di mostrare che tutti sono validi anche se in contraddizione tra di loro.
Intanto era scesa la sera e già i servi accendevano i lumi e preparavano ogni cosa per il pranzo. Qualcuno taceva pensieroso, molti interrogavano il filosofo sul suo viaggio, sul processo d'eresia, sulla lontana Parigi misteriosa. Il giovane narrò come sostenne in un libro le sue tesi sulla logica e come queste furono discusse in un'aula dello studio di Parigi e giudicate eretiche perché trascinavano nel crollo della logica, così fu detto, tutta quanta la teologia ed intaccavano le verità della fede. Invano egli aveva sostenuto che non ne derivava la falsità della dottrina cristiana, ma solo dell'affermazione che la dottrina cristiana è l'unica vera.
Raccontò che a questo punto maestri ed abati si alzarono gridando che in tal caso si dovrebbe ammettere che anche un'altra religione può essere "vera", persino quella di Maometto. E poiché proprio questa era la conseguenza a cui voleva giungere, qui il filosofo, prudentemente, aveva taciuto, fingendo d'esser sorpreso lui stesso dell'audacia di tale affermazione. E questa simulazione lo salvò. Guardò i maestri con aria stupita e innocente, e quelli giudicarono che egli non avesse previsto a quali gravi conseguenze avrebbe portato il suo pensiero e non ritennero necessario imprigionarlo mentre veniva istruito il processo.
Quella notte stessa il filosofo aveva lasciato segretamente Parigi.
Voleva scendere in Italia, che era la sua terra d'origine e in cui voleva continuare i suoi studi. Aveva soggiornato per circa un mese nel convento di Sant'Orso, dove cibo e ricovero gli erano offerti in abbondanza. Ma preoccupato di nascondere la sua identità e i suoi studi che avrebbero parlato per lui, aveva deciso di partire quel mattino, prima dell'alba, diretto alla pianura che placida si stende alla foce del fiume. Qui s'era ad un tratto smarrito nella nebbia e ritrovato su una strada che saliva fortemente, e ch'egli aveva seguita sperando che portasse in qualche luogo ove trovar rifugio. Così era giunto a quel castello.
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