Laura Mancinelli - I dodici abati di Challant

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I dodici abati di Challant: краткое содержание, описание и аннотация

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Sospesi tra storia e invenzione in un Medioevo che sembra vero, sono qui raccolti in un unico volume tre romanzi di Laura Mancinelli, in cui l'autrice approda a una visione fantastica e affettuosamente ironica della tradizione e della società medioevale: "I dodici abati di Challant", dove, in una cornice di ironia mondana e gaudente, dodici monaci ricevono l'incarico di sorvegliare un feudatario che eredita un castello con la clausola di mantener fede a un maligno obbligo di castità; "Il miracolo di Santa Odilia", immagine della vita che si afferma in chiave religiosa, ma non trascendente, attraverso la storia di due Odilie: la prima devota e pia, la seconda giovane e bella; e infine, conclusione ideale di questa metafora ideale, "Gli occhi dell'imperatore", dove una contessa piemontese, un cavaliere-musico-poeta e l'imperatore Federico II, ormai prossimo alla morte, partecipano a un affascinante percorso di avventure e sentimenti, che è anche un intreccio di entusiasmo, rassegnazione e senso del destino.

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Quando molte coppe furono vuotate e molti vassoi mostrarono scoperto il loro fondo, ecco che furon portati in tavola altri più grandi vassoi, altrettanto fumanti, ripieni a montagna di profumati guancialotti che in brodo erano stati bolliti e poi scolati e sparsi di burro fuso e polvere di cannella e cacio grattugiato. Vennero in tavola spargendo un grato odore che a tutti mosse le mani armate di lunghe forcine, e i guancialotti dai grandi vassoi passarono nei piccoli piatti d'argento che ognuno aveva innanzi e di lì negli stomaci vogliosi che il vino aspretto aveva eccitato. E come un vassoio veniva vuotato, subito era sostituito da un altro ricolmo, né mai vedevasi in tavola un vassoio vuoto o una coppa assetata, e a mano a mano che cibo e vino riscaldavano i corpi, cresceva il vocìo, che, nato come bisbiglio stupito, era già, ora, quasi rombo continuo che intronava la vasta sala dall'alto soffitto di ben connesse travi d'abete. Mille luci da tutti i canti la illuminavano di guizzi sanguigni mentre le ombre della sera precoce invadevano gli angoli più riposti e assediavano le alte finestre. E come più dense si facevano le ombre, più alte guizzavano le lingue di luce dall'olio dei lumi, più acute le voci dei commensali, più intensamente calda l'aria accesa dal vino. Poi vennero molte carni arrostite, tra cui la timida marmotta, il fuggiasco capriolo, lo stambecco maestoso e il violento cinghiale. Ma già le voglie saziate si erano, e lente giungevano le mani a carpire quelle carni che dalla fredda neve, in cui tre lunghi giorni dimorate si erano, poi che tutta una notte in vino rosso s'erano macerate, erano passate agli acuti spiedi e ai carboni ardenti del focolare. Molti discorsi a gara s'intrecciavano tra i commensali, molte pellicce già dalle spalle erano state gettate sul pavimento, quando la marchesa s'allontanò dalla sala per ritornare tosto recando in mano una grande ampolla di limpidissimo vetro in cui un'acqua chiara brillava al luccichio dei lumi. Sorridendo la pose sulla tavola e chiese nuove coppe di puro argento, che subito i servi s'affrettarono a recare, e sempre sorridendo versò a tutti di quell'acqua chiara. Un'aria di mistero riposava sul bel volto chiuso in una lucente benda d'argento che nascondeva coi capelli tutta la fronte, sotto la quale gli occhi neri scintillavano di rattenuta malizia. Tacquero tutti sospesi guardando affascinati quell'acqua chiara che nulla pareva racchiudere in sé di misterioso ed inconsueto, eppure non era acqua di fonte.

- Bevete, signori, alla mia salute, - disse la marchesa levando leggermente la sua coppa. Tutti s'alzarono in piedi e bevvero alla salute della bella castellana. Si levò, tremolante, anche il vasto abate Torchiato, che dietro la botte quasi nascosto era dimorato fino a quel momento. Anche lui alzò tremante la sua coppa e bevve con gli altri. Fuoco ardente, fuoco di piacere, fuoco che fin gli ultimi visceri accese di caldi sensi, scorse per la gola a tutti i commensali, e fu spavento, gioia e piacere, fu anche smarrimento per la gran novità di quell'acqua ardente, e poi fu riso, e scoppi di voci, e quasi un gridare ed altercare tra tutti quei signori altrimenti sì gravi e sì severi. Furono recate altre ampolle di quell'acqua chiara, e la marchesa spiegava come essa si ricavi distillando in grandi alambicchi di rame il vino generoso che producono i balzi rocciosi della valle.

Ma già qualcuno aveva messo mano ai flauti, all'arpe e ai grandi liuti, e furono musiche e canti confusi, e accenni di danze diverse e contrastanti tra scoppi di voci ridenti ed irridenti. Poi flauti, tamburelli e trombe s'unirono a suonare un saltarello che madonna Maravì danzò col ritmo sfrenato del saltarello lombardo e col calore del suo sangue meridionale. Anche Venafro e il duca misero mano ai loro flauti mentre l'abate Mistral suonava un gran liuto d'Arabia.

Io non so dire fino a quando durò quella festa: so che i servi stanchi s'addormentarono con la testa appoggiata alle tavole della cucina, e il silenzio tornò nell'ampia sala quando la pallida aurora invernale, vincendo gli ultimi lumi che guizzavano rossastri, illividì la sala piena di disordine, gli scanni rovesciati, la lunga tavola ancora imbandita, le coppe lucenti, la grande botte montata nel mezzo della tavola e, in tanta confusione, la nera mole dell'abate Torchiato che giaceva esanime col capo appoggiato alla tavola da cui tanto piacere aveva tratto nel corso della sua lunga vita.

Il filosofo

Chi la mattina di quel tredici di gennaio si fosse affacciato ad una qualsiasi delle finestre del castello avrebbe avuto l'impressione che il mondo fosse scomparso: sprofondato, sparito, spariti gli alberi, le montagne, sparita la terra su cui il castello sorgeva, sparito il cielo, gli uccelli, i cani, i buoi, i pastori, le capre, le mucche, sparite le case col fumo, con i tetti, le stalle, i fienili, sparito tutto insomma, e che soltanto il castello galleggiasse nel vuoto, come un'isola galattica, in un oceano di niente, bianco, silenzioso, incredibilmente opaco e denso. Solo dopo aver superato il primo sbigottimento e l'angoscia di quel muro bianco, si sarebbe accorto che quel niente era anche incredibilmente umido, ed entrava a folate dalle finestre aperte come se volesse inghiottire anche le stanze e tutto il castello nella sua fredda nullità.

- Maledetta nebbia, - brontolò il duca guardandola con astio. - In nessun'altra parte del mondo la nebbia è così maligna.

Mentre il duca brontolava così nella sua stanza, Venafro, nella sua, guardava pensieroso fuori della finestra, dove non c'era proprio nulla da vedere. Ma più che guardare, seguiva certi suoi pensieri... Era uno di quei giorni assurdi in cui il mondo appare tanto lontano che ci si dimentica persino che esiste.

E invece il mondo esisteva, urgeva anzi alle porte del castello, e si fece sentire ben presto sotto forma di un frastuono eccezionale di colpi battuti generosamente alla porta della corte, accompagnati da grida di richiamo e sonorissimi schiocchi di frusta. Si sarebbe detto che un esercito intero premesse contro quella porta, o almeno un gigante. E invece i servi che s'affacciarono alle finestrelle non videro nulla, nulla se non la grande spuma bianca della nebbia.

Ma il frastuono non cessava, segno evidente che il "mondo" era ancora lì, alle porte del castello, con tutta la sua forza di autoaffermazione. Gli eremiti, che per fuggire il "mondo" e dimenticarne l'esistenza, si ritirano nel deserto o su monti impervi e disabitati, e notte e giorno trascorrono in preghiera, soffrendo la fame e il freddo e privazioni d'ogni specie, macerando il corpo e umiliando la carne, gli eremiti sanno quanto sia potente il "mondo".

Perché anche là, dove non arrivano strade né sentieri, dove la mano dell'uomo non ara campi né pianta le viti, là su riviere dove nessun pescatore ha mai teso le reti e nave alcuna ha mai solcato il mare, là dove la natura è vergine come Dio l'ha creata, ebbene ancor là giunge la potenza del "mondo" con le sue tentazioni e le sue profferte lusinghiere. E allora accade che al santo eremita, il cui petto incavato e la canizie precoce testimoniano l'ardore dell'ascesi, di notte il "mondo" si insinui nei brevi sonni, a lusingarlo e tormentarlo, sotto forma di sogni voluttuosi, immagini di stoffe profumate che scoprono nudità lucenti e sguardi impuniti. Tale è la malizia del "mondo" che esso si cela in oggetti apparentemente innocui, ma atti a suscitare nostalgie peccaminose, come un tenero virgulto di palma o un giovane capriolo fuggente, o una coppia d'insetti in amore o un semplice frutto del melo, o un fiore, un odore del prato, un colore del cielo. Tanto è potente, e malizioso, il "mondo".

Questa volta il "mondo" irruppe così fragorosamente, non nelle vesti di uno sterminato esercito assalitore, né d'un gigante o un mostro in cui spesso cela la sua forza maligna, ma nelle vesti di un giovane chierico, montato su un ronzino, avvolto in un mantello su cui stava piantato, presuntuosamente, un cappelluccio a punta di quelli che sogliono portare gli studenti, ornato di due penne lunghissime ondeggianti: una verde-gialla di galletto, e una, candidissima, di cigno. Né il chierico era gigantesco, bensì di media statura; né terribile in volto, ma poco più che un ragazzo biondo. Cui contrastava però, singolarmente, la furia con cui s'avanzò nella corte e s'inoltrò poi nell'atrio del castello, apostrofando i servi in quella lingua estrania che si parla oltralpe, in quel di Francia, e propriamente nella gran Parigi.

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