Laura Mancinelli - I dodici abati di Challant

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I dodici abati di Challant: краткое содержание, описание и аннотация

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Sospesi tra storia e invenzione in un Medioevo che sembra vero, sono qui raccolti in un unico volume tre romanzi di Laura Mancinelli, in cui l'autrice approda a una visione fantastica e affettuosamente ironica della tradizione e della società medioevale: "I dodici abati di Challant", dove, in una cornice di ironia mondana e gaudente, dodici monaci ricevono l'incarico di sorvegliare un feudatario che eredita un castello con la clausola di mantener fede a un maligno obbligo di castità; "Il miracolo di Santa Odilia", immagine della vita che si afferma in chiave religiosa, ma non trascendente, attraverso la storia di due Odilie: la prima devota e pia, la seconda giovane e bella; e infine, conclusione ideale di questa metafora ideale, "Gli occhi dell'imperatore", dove una contessa piemontese, un cavaliere-musico-poeta e l'imperatore Federico II, ormai prossimo alla morte, partecipano a un affascinante percorso di avventure e sentimenti, che è anche un intreccio di entusiasmo, rassegnazione e senso del destino.

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Era il tempo che i pisani, più volte sconfitti dai genovesi, pochi uomini abili avevano al combattimento, e sui ponti delle navi avean chiamato bambini e vecchierelli e chi aveva trascorso la sua vita a leggere libri polverosi. Non avean speranza di vittoria, quei pisani, se non fosse per un caso mirabile e insperato. Quel miracolo fecero le mie balestre, che a centinaia costruirono i pisani sul mio disegno. E n'ebbi trenta scudi di Francia. E da Genova fui esiliato per tutta la mia vita e bruciato in effigie, perché mai più tornassi in quella terra che amavo. Ora vendo le mie macchine per i mercati del mondo, senza patria, senza casa, tra le nevi dei monti, lontano dal mare ch'io vedevo ogni giorno incurvarsi azzurro sotto il cielo. - Qui tacque e cupamente bevve dalla sua coppa.

- Quei trenta scudi, - soggiunse, - li spesi per comprare il carro, i due cavalli e tre misure di campanelli di bronzo.

- Tre misure di campanelli? - chiese la marchesa.

- Sì, madonna. Quei campanelli che forse udiste tinnire al trotto dei miei cavalli. Cinque scudi mi costò il carro, venti i due cavalli, ottime bestie anche da cavalcare; mi rimanevano cinque scudi, che pensai di mettere a capitale comperando campanellini di bronzo, che hanno il suono quasi dell'argento. Erano gli ultimi scudi che mi restavano e dovevo impiegarli bene.

- Non capisco, messere, - intervenne il duca, - perché pensaste di impiegarli bene comprando tre misure di campanelli...

- Poiché nulla di bello al mondo mi restava, monsignore, volli che almeno il tinnir dei campanelli mi sovvenisse la gioia passata, o accennasse alla futura, se mai alcuna per me ci sarà. E se la gioia non è nel mio cuore, devo fingere che in qualche luogo ci sia, ove non so, e che la comunichi a chi ode, perché è principio di vita e d'ogni bene che al mondo si faccia, sì che, ove gioia non c'è, è d'uopo che s'inventi, si finga e altrui s'imponga. - E dopo una pausa soggiunse: - I miei cavalli almeno godono di quei campanelli che gli allevian la fatica della salita, e la noia del viaggio nella nebbia.

Quando messer da Morazzone così ebbe parlato, tutti tacquero pensando al senso delle sue parole. Venafro s'alzò e a tutti mescé da bere, dicendo che poi, quando s'avesse mangiato e bevuto in pace ed allegria, egli avrebbe volentieri esaminato le macchine di messer Enrico, ché già da tempo sentiva crescere in sé grande interesse per cotesta scienza intesa ad alleviare agli uomini le fatiche dell'opre e della vita. Vennero intanto i servi ed imbandirono le mense. Ma anche durante il pranzo il discorso si aggirò sulle macchine e sul potere che esse dànno all'uomo e sulla bellezza di veder nascere il movimento, quasi tangibile miracolo, dall'allentarsi di una molla prima compressa.

- Oltre alla molla, che di tutti i sistemi è il più facile a porsi in opra, altri infiniti la natura ne fornisce atti tutti a produrre il movimento. All'uomo non occorre che leggere nel gran libro della natura, e ad ogni pagina che volta, può trovare insegnamento a mirabilmente operare per produrre ciò che serve alla vita, ed anche ciò che non serve, ma talmente seduce che vien creduto necessario.

- Conoscete altre sorgenti di movimento, messere? - chiese Venafro, che di tutti pareva il più interessato a quei discorsi. Enrico da Morazzone lo guardò a lungo col suo sguardo azzurro e un po' diffidente. Indi sorrise e rispose: - Certamente, monsignore. Basta una differenza di temperatura a generare movimento. S'accenda un gran fuoco, e l'aria riscaldata si solleverà verso l'alto come un corpo che perda peso. Nel vuoto lasciato dall'aria calda v'accorre quella fredda, che più pesa, ed ecco attuato un movimento che opportunamente imprigionato può esser messo in opra. Quel gran fuoco che è il sole, che perpetuamente arde, già provoca questo moto nell'aria, là dove nascono i venti chiamati alisei, che incessantemente come gran macchina si muovono tra quella più calda zona della terra che chiamasi equatore e le altre propinque ove il sole si ferma al volger delle stagioni per ritornare sopra i propri passi.

Tutti tacevano pensosi cercando di coglier colla mente tesa il senso difficile del discorso, difficile soprattutto per chi del sole conosceva il corso obliquo delle terre settentrionali e l'orizzonte interrotto dai continui monti.

- Questo movimento, - proseguì l'inventore, - si volge uniforme e senza interruzioni, sì che può dirsi esser quel tanto favolato moto perpetuo, che d'ogni scienza è sempre stato la speranza celata e il desiderio.

- Ma è possibile, - l'interruppe Venafro, - mettere in opera una macchina che perpetuamente si muova alla forza di quei venti?

- Forse, - rispose pensieroso l'inventore. - Ma richiede altissimo ingegno ed istrumenti di tanta mole da imprigionare il vento. Ed io in quelle terre mai non fui ove spirano i venti alisei. Ne udii solo parlare da gente ch'era stata alle crociate, e dagli arabi aveva la notizia. Sono cose lontane e per questo ci paion favolose. Ma facendo nel mare i miei esperimenti, dal mio vascello che aveva nome Ulisse, altro principio scoprii di continuo movimento che può attuarsi in ogni luogo ove sia dell'acqua, mare, o stagno, oppur riviera.

Qui si interruppe e guardò attentamente Venafro.

- Voi sapete quel che sentenzia Archimede sulla spinta che i corpi ricevono nell'acqua dall'elastico elemento che li spinge verso l'alto e li fa galleggiare, e tanto più lievi galleggiano quanto più grandi si stendono sul liquido elemento. Bene, su questo principio ho costruito macchine assai belle che costantemente muovono e generano movimento. Ma le mie invenzioni più belle son quelle che muovono dalla molla compressa.

Quando il pranzo fu terminato messer da Morazzone presentò a Venafro la più bella, la favorita delle sue invenzioni.

- Questa, monsignore, è la macchina da far saltar le mele. - Venafro lo guardò in silenzio. E l'inventore continuò: - È fatta d'un albero cavo in cui passa una molla; dall'albero si parton ramicelli, pure cavi e percorsi da molle internamente, che collegate sono con la molla centrale. Ogni ramicello termina con una cucchiaia che quando la molla, prima compressa con una vite, vien liberata, principia a girare e sempre vorticosamente gira finché la forza della molla non si spegne. Or se ogni cucchiaia sorregge una mela, una bella mela rossa, ogni mela salterà con bellissimo effetto, che se sette sono i ramicelli, sette belle mele salteranno insieme con movimento pari e pari forza.

- Ma a che può servire, messere, uno strumento pure sì bello? L'inventore lo guardò con lieve sguardo di scherno. - Chi dice che debba servire a qualcosa? La macchina è bella per la sua bellezza e non occorre che anche utile si mostri. E poi, - proseguì con voce raddolcita, - anche quando le macchine son utili, tal lavoro richiedono e fatica d'uomini a produrle che essa sarà sempre maggiore della fatica che risparmiano a chi le usa. Ma è la macchina una tal sirena che avvince l'umanità e la fa sua schiava. Giorno verrà che uomini faticheranno, proprio come adesso e forse ancor di più, per produrre macchine che allevino loro la fatica di camminare, di arare i campi, di far qualunque cosa. Giorno verrà che l'uomo, quello che ora è contadino e s'alza all'alba per andare nel suo campo con la pioggia e con la nebbia, giorno verrà, benché sia ancor lontano, che quell'uomo, non più contadino, s'alzerà all'alba e viaggerà nella pioggia e nella nebbia in lunghe file lente per andare negli immensi opifici ove si costruiscono le macchine che dovranno liberarlo della fatica di camminare.

- E non farà dunque più alcuna fatica? - Farà un'identica fatica, ad avvitar bulloni, a battere lamiere e cento altri mestieri.

- Ma allora perché costruire le macchine? Tanto varrebbe continuare a camminare. Questa volta apertamente sorrise messer da Morazzone. - La macchina è come un sortilegio; in fondo se ne potrebbe fare a meno. Eppure si mostra più necessaria del pane, necessaria come l'aria che respiriamo coi polmoni. Ma passerà molto tempo, non preoccupatevi, monsignore.

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