Laura Mancinelli - I dodici abati di Challant

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I dodici abati di Challant: краткое содержание, описание и аннотация

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Sospesi tra storia e invenzione in un Medioevo che sembra vero, sono qui raccolti in un unico volume tre romanzi di Laura Mancinelli, in cui l'autrice approda a una visione fantastica e affettuosamente ironica della tradizione e della società medioevale: "I dodici abati di Challant", dove, in una cornice di ironia mondana e gaudente, dodici monaci ricevono l'incarico di sorvegliare un feudatario che eredita un castello con la clausola di mantener fede a un maligno obbligo di castità; "Il miracolo di Santa Odilia", immagine della vita che si afferma in chiave religiosa, ma non trascendente, attraverso la storia di due Odilie: la prima devota e pia, la seconda giovane e bella; e infine, conclusione ideale di questa metafora ideale, "Gli occhi dell'imperatore", dove una contessa piemontese, un cavaliere-musico-poeta e l'imperatore Federico II, ormai prossimo alla morte, partecipano a un affascinante percorso di avventure e sentimenti, che è anche un intreccio di entusiasmo, rassegnazione e senso del destino.

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Assai cortesemente si offerse Venafro di essergli compagno al viaggio accidentato vuoi per i pendii erti e malfidi, vuoi per il cielo minaccioso dell'autunno.

E partirono. Venafro teneva forte con la briglia il suo grande Rabano generoso perché seguisse il passo faticoso dell'asinello che, a testa bassa, trascinava la sua gran soma. Era un asinello piccolo e grigio, e con la schiena sorpassava di poco la pancia del cavallo. Non aveva ornamenti né sonagli, neppure un fiocco, né il suo padrone gli parlava mai nel viaggio, né gli dava voce; gli dava bensì gran calci nella pancia perché allungasse il passo. Venafro lo guardava dall'alto del suo fortissimo Rabano, e pensava che alla povera bestia non era stato dato neppure un nome.

Scendeva la nebbia sui poggi boscosi mossa da un umido vento protervo, e per freddo e tristezza rabbrividivano uomini e animali. Quando si fermarono a riposare in una capanna di montanari, Venafro comprò buon fieno per il suo Rabano e lo divise in due parti uguali. Una la mise davanti all'asinello accarezzandogli il collo freddo e sudato. La bestia lo ringraziava strofinandogli il muso sul mantello.

Al convento si fermarono poco: Nevoso non volle pernottare e malgrado le bestie, soprattutto l'asino, fossero evidentemente provate dalla fatica, insistette per partire dopo aver pranzato. Ma se duro era stato il viaggio di andata, ancor più duro fu il viaggio di ritorno.

Quello era in discesa, il ritorno fu in salita. La nebbia inoltre s'era condensata in neve larga e molle che impastava i sentieri e li rendeva scivolosi. Rabano tirava gagliardamente con passo sicuro; l'asino arrancava sdrucciolando nella poltiglia fredda. Là dove cominciava la salita Venafro propose di sostare per ristorare le cavalcature. Ma Nevoso non volle, ché sperava di giungere al castello prima di sera, ché temeva che la neve gelasse sulla strada, ché smaniava di trovarsi nel calore del camino davanti una tavola imbandita. Invano Venafro gli disse che l'asino era stanco, che la strada era ancor lunga, che potrebbero anche dormire in un casolare per via. Nevoso non intese ragioni.

E l'asino tirava a testa china, inarcando la schiena sotto il grave peso dell'abate. La neve scendeva sempre più fitta e gelida a mano a mano che i due uomini salivano dal fondo della valle. Camminavano in silenzio. Venafro era assai triste. A un tratto l'asino piegò le zampe anteriori e cadde in ginocchio. Maledicendolo, Nevoso cercò di farlo alzare a furia di calci nella pancia.

- Se non volete che l'asino muoia, dovrete proseguire a piedi, - disse Venafro. L'abate non rispose. Bestemmiando riuscì a rialzare la sua cavalcatura e montò in groppa. L'asino proseguì ansimando per qualche centinaio di metri; ma la salita diventava più ripida e la terra gelata gli sfuggiva sotto le zampe. Quando il castello di Challant apparve alto sulla valle al di sopra della nebbia, l'asino stramazzò a terra trascinando nella caduta il suo cavaliere. A fatica l'abate si districò dalla bestia e tentava di farla rialzare a calci. Ma Venafro scese dal suo cavallo, allontanò l'abate e trascinò l'asino sul ciglio della strada. Poiché era morto.

E non disse nulla.

Cosi giunsero al castello, Venafro a piedi tenendo le briglie di Rabano su cui stava inerpicata l'immensa mole di Nevoso.

Enrico da Morazzone, inventore

Da qualche giorno era cessato di nevicare e il sole risplendeva sulla valle innevata. Fu in uno di quei giorni di sole che Enrico da Morazzone giunse al castello di Challant. Veramente giunse al castello, assai prima di lui, un suono di campanelli che saliva dal fondo della valle e si spargeva festoso nell'aria. Tutti accorrevano a vedere, i contadini si affacciavano sull'uscio di casa, i bambini si arrampicavano sugli alberi, i vecchi si trascinavano sul ciglio della strada, i servi del castello correvano a sporgersi tra i merli delle mura, le donne s'affacciavano alle finestre. La marchesa uscì sul verone verso la valle.

Il suono dei campanelli s'avvicinava allegramente, s'avvicinava sempre più, finché in fondo alla strada apparve un carro tirato da due cavalli al trotto, montato su una slitta e guidato da un personaggio alto, in piedi sul carro, che schioccando la lunga frusta faceva cadere dagli alberi gli ultimi fiocchi di neve impigliati tra i rami.

Allora tutti videro che lo scampanellio veniva da tanti minuscoli campanellini legati ai finimenti dei cavalli.

Enrico da Morazzone era alto e magro, vestito di una palandrana verde che gli scendeva diritta dalle spalle alle caviglie e, quando alzava le braccia, gli dava l'aspetto di un lungo rettangolo verde. Schioccò verso l'alto la frusta in segno di saluto. Poi vide la marchesa al balcone e si inchinò portando la mano destra sul cuore. E si presentò: messer Enrico da Morazzone, inventore. Subito una folla di bambini, vecchietti e contadini curiosi gli si fece incontro, circondò il carro, fece tinnire i campanelli, accarezzava i finimenti di velluto, toccava gli oggetti misteriosi che si trovavano sul carro, mentre i cavalli nitrivano di compiacimento. Ma tra la folla si fece largo il paggio Irzio, giovinetto di primo pelo e unico paggio della marchesa, ad invitare, a nome dei suoi signori, l'inventore alla corte.

Era quella dolce ora del meriggio in cui più lieti gli animi intendono all'attesa del pranzo in piacevoli conversari e amichevoli contese. E discorrendo s'inganna l'appetito con blandi sorsi di vino puro, vuoi bianco, vuoi rosso, ma sempre assai secco e generoso. A tale occupazione erano intenti i signori della corte quando messer Enrico da Morazzone fu introdotto dal paggio Irzio nel salone del castello.

Si inchinò leggermente sulla soglia, poi senza esitazione si diresse verso la marchesa.

- Madonna, - mormorò inginocchiandosi davanti a lei e baciandole lungamente la mano. La marchesa sorrise e col gesto della mano rialzò lo sconosciuto. Egli poi si volse al duca e si presentò inchinandosi leggermente con la mano sul cuore, poi accennò un inchino a Venafro, poi circolarmente in giro, indi si sedette su uno scanno che il paggio gli porgeva. Sollevò la sua coppa all'indirizzo della marchesa, e bevve un lungo sorso da cui parve trarre grandissimo piacere; chiuse un attimo gli occhi poi parlò: - Signori, v'ho detto il mio nome; ma certo esso suona nuovo alle vostre orecchie. Fin qui non giunge la mia fama. Lontanissima di qui giace una terra dolce di vigne e d'uliveti, ove d'inverno fiorisce la mimosa e il cielo riflette il colore lieto del mare. Siede una città in quella terra, ricca di chiese e di palazzi, potente di flotte e di ricchezze, una città tra il monte e il porto, che ad ogni ora si specchia nelle sue navi e nei ricchi equipaggi, nel lavoro che ferve intorno ad esse, nelle macchine grandissime e nuove che smontano le merci dalle navi, e nel velame gonfio di vento dei vascelli che salpano per il vasto mondo. Genova è il suo nome. Là io nacqui. Là vissi ricco ed onorato, fin quando la stoltezza degli uomini, o la sorte, alla mia città mi resero nemico, sì che ne fui esiliato, io, per sempre, per tutta la mia vita. Fu a causa delle mie balestre.

Avevo già per la mia città costruito argani e verricelli, ponti mobili e mille altre macchine ingegnose, e a tutte i congegni inventati dalla mia mente avevan dato una potenza che ai più pareva arcana, sì che tra i semplici e ignoranti già m'ero fatto fama di negromante. Forse l'audacia, o forse l'amor dell'inventare, mi stimolò sì che volli, in superbia, superar me stesso. E costruii quella che doveva essere coronamento alla mia scienza, macchina mirabile eppur semplice assai, che maggior potenza doveva dare alla mia terra e ai suoi eserciti, perché la macchina era da guerra, micidiale come se fosse maneggiata da giganti, ma congegnata in modo che un debole infermo, od un bambino, potevano da essa trarre strali mortali. Fu la balestra a molla, la più bella delle mie invenzioni, da cui m'attendevo la gloria del mondo e la riconoscenza dei miei concittadini. Ma l'invidia dei potenti, e la sorte maligna, che più offende là dove più si spera, mi colpì con quella balestra istessa cui avevo dedicato amorose cure. È una balestra il cui arco si tende, anziché con la volgare forza delle braccia, per il mezzo d'una chiave che girando avvolge una robusta molla: si punta l'arnese, si arma, si libera la molla, e il proiettile parte come spinto dalla forza di un gigante. Anche un vecchio, un bambino, un malato, può con quella macchina portentosa combattere in battaglia contro un esercito nemico. Ma quando presentai al Consiglio la mia macchina diletta, risero quei folli, resi ciechi d'invidia, e proclamarono che le braccia dei genovesi di molle non avevano bisogno, e che senza stratagemmi avrebbero vinto ogni battaglia. Fu allora che, piagato in cuor dalla ripulsa, vendetti la balestra a quei di Pisa.

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