Laura Mancinelli - I dodici abati di Challant

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Sospesi tra storia e invenzione in un Medioevo che sembra vero, sono qui raccolti in un unico volume tre romanzi di Laura Mancinelli, in cui l'autrice approda a una visione fantastica e affettuosamente ironica della tradizione e della società medioevale: "I dodici abati di Challant", dove, in una cornice di ironia mondana e gaudente, dodici monaci ricevono l'incarico di sorvegliare un feudatario che eredita un castello con la clausola di mantener fede a un maligno obbligo di castità; "Il miracolo di Santa Odilia", immagine della vita che si afferma in chiave religiosa, ma non trascendente, attraverso la storia di due Odilie: la prima devota e pia, la seconda giovane e bella; e infine, conclusione ideale di questa metafora ideale, "Gli occhi dell'imperatore", dove una contessa piemontese, un cavaliere-musico-poeta e l'imperatore Federico II, ormai prossimo alla morte, partecipano a un affascinante percorso di avventure e sentimenti, che è anche un intreccio di entusiasmo, rassegnazione e senso del destino.

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Laura Mancinelli

I dodici abati di Challant

Copyright 1981 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino.

Su concessione Giulio Einaudi editore.

Nota biografica

Laura Mancinelli vive e lavora a Torino. Oltre alla "trilogia medievale" ha pubblicato, sempre da Einaudi, "Il fantasma di Mozart" (1986) e "Amadé" (L'Argonauta, 1990).

Venafro

L'uomo che saliva a cavallo tra i boschi verso il castello di Challant mostrava di conoscere bene i sentieri perché li trovava senza alcuna difficoltà pur sotto la spessa neve dell'inverno precoce che aveva coperto tutta la vallata. Eppure era straniero. Lo dicevano i capelli neri e corti, i baffi neri, gli occhi pure incredibilmente neri. Anche il colorito del volto era sensibilmente più scuro di quanto non fosse dato incontrare in quella valle. Il lungo mantello nero col cappuccio, da cui scuoteva ogni tanto la neve che continuava a ricoprirlo, completava la figura misteriosa.

Il suo nome era Venafro. Ma forse non era il vero nome. Nessuno sapeva nulla di lui, se non che la sua origine doveva avere qualcosa a che vedere con la bellissima e leggendaria Isabella d'Aquitania, che mai tuttavia aveva soggiornato in quei monti, pur essendo non lontanamente imparentata con i marchesi di Challant. E tutto l'aspetto di Venafro tradiva l'origine esotica. Ma di dove venisse, nessuno sapeva.

Il mistero, ed il raro sorriso sulle sue labbra, contrastavano con quella parentela illustre in cui la nobiltà della nascita gareggiava con l'impareggiabile libertà dei costumi. Si diceva infatti nelle antiche cronache provenzali che Isabella d'Aquitania, tra le molte inimitabili licenze della sua vita, consentite a bellezza e nobiltà, avesse tentato, spinta dall'amore, di intenerire il cuore di quell'uomo eccelso, ma all'amor carnale assai poco indulgente, che fu messer Bernardo, signore di Chiaravalle e abate del convento. Molto se ne parlava ancora in Aquitania, e per la gran fama di lei, che donna fu di grandissimo valore, e per la strana assai vicenda di cui fu causa e che a Bernardo fruttò, per la casta costanza, il titolo di santo, se non l'aura del martirio. Perché martirio forse non vi fu, e la questione fu a lungo dibattuta fra le scuole di Parigi e Salamanca, delle quali Salamanca propendeva per il martirio, perché intendeva che martirio fosse sottrarsi all'amore di una donna nobile e bella quale fu madonna Isabella d'Aquitania, ardente di gioia e di passione e che prigioniero lo teneva tra le bianche dolcissime sue braccia. Parigi sentenziò che non martirio era, sibben follia. Ma si legga la cronaca di Provenza. (Per facilitarne la lettura abbiamo alquanto ammodernato il linguaggio).

"In quel tranello invero cadde Bernardo il dì che si recò ad Acque Seste, ove i fanghi tepidi o bollenti sempre han curato artrosi e reumatismi molcendo col calore le giunture, sciogliendo nodi e vari indurimenti accarezzando col tepor le membra. S'era Bernardo ridotto a tali cure per un dolore che aveva alla cervice venuto forse dalla fredda cella in cui Seneca studiava e Cicerone, e Girolamo il traduttore ed Agostino, e Platone e Aristotele e Plotino. La mano destra pure gli doleva e gli era nato per questo un gran timore che più non potesse scrivere sermoni che fustigassero le colpe delle genti che amano il corpo ed i piacer carnali. Solo per questo infine s'era indotto a sottoporsi a quelle cure ardenti, disteso nudo sopra un picciol letto, mentre donne vecchie vestite di nero versavano il fango in gran silenzio sopra le membra dolenti e irrigidite. E poi che s'era fatto freddo e duro, via lo lavavano con pura acqua di fonte. Ma udite del diavolo maligno bieca impresa e turpe ingannamento. Qui s'avvide un giorno il santo frate che la donna velata e vestita di nero, vecchia non era e il velo si toglieva, e scopriva volto ridente et amoroso sguardo. Mentre il fango già si rapprendeva, divenuto all'istante troppo duro, la bella donna sulla bocca lo baciava e trascorrer gli faceva per le vene quel fuoco dell'inferno maledetto che tanto aveva dal pulpito annunciato. Mentr'ella il capo coronato di perle sollevava sopra il suo misfatto, perché il santo non profferisse verbo altro fango gli poneva sulla bocca chiudendola al sacro sdegno prorompente. Allora il frate, quale guerriero audace, pronto a morire senza cedere al demonio, tentò levarsi per fuggir la peccatrice; ma a costei aveva appreso il diavolo in persona le trappole perverse dello inferno. Costei il suo corpo non col fango buono, ma con vile calcestruzzo avea coperto, che raffreddando s'era ormai indurito e come una corazza lo stringeva, inerme ed esposto ad ogni offesa. Nulla poteva se non rotare gli occhi, ardenti di fiamme sacrosante, mentre china su di lui la peccatrice, con mani audaci ed impudiche già andava accarezzando la fredda rigida corazza. E il santo, conscio del martirio, già presentiva la ferita aperta, la crosta vulnerata in qualche parte, la mano audace che, ladrescamente, gli rapinava virtute e continenza. Quasi avrebbe accettato in quel momento che fosse giusta la voce d'Abelardo, il frate spocchioso e peccatore, che predicava da un pulpito d'inganni che l'intenzione sola può peccare. E con tal dottrina lui non peccherebbe, che intenzione carnale non aveva quando, vestito dell'umile saio, era venuto a chiedere sollievo a quel dolore che gli insidiava gli arti. Ma l'immagine del monaco rivale già si sfaceva come nebbia al sole sotto lo sguardo caldo di quegli occhi che parevan penetrarlo fin dove non giunge umano sguardo. Già gli pareva che si sciogliesse il fango e la mano bianca trascorresse sulla pelle nuda, voluttuosamente".

Qui s'arresta la cronaca di Provenza. Come sia finita l'avventura di san Bernardo non si può sapere, perché alla cronaca manca, proprio in questo punto, un brandello di pergamena. La fama popolare, commossa dalla santità del frate, racconta che nell'ora invocata del martirio, a cui già il frate s'era rassegnato, venne dal cielo la colomba santa, la gran colomba dalle bianche ali, e con il becco spezzò quella corazza. La creta si coprì di crepe, il frate fece forza, e il santo fuggì via intatto ed innocente. Ma poco credito ha presso i sapienti questa ingenua voce popolare. Né importa molto a questa storia se fu salva la virtù di san Bernardo; si voleva solo raccontare che per qualche via, misteriosamente, la persona di Venafro si collega alla bella dama dei tempi andati, ma non troppo lontani. Certo però, se una qualche parentela legava il misterioso Venafro alla grande Isabella d'Aquitania, della madre non aveva certamente ereditato la gaiezza, né la leggerezza, né quell'aura d'eterna innocenza che delle belle donne fa il fascino potente e l'arte irresistibile e perversa.

Venafro era solitario e taciturno. Al castello era stato accolto come straniero, o esule, o parente. Godeva del favore della bella castellana, madonna Bianca di Challant, e del cognato di lei, il duca Franchino di Mantova, di cui diremo più avanti per quali strani sentieri del destino era giunto ad essere signore del castello dopo la morte del vecchio marchese Alfonso di Challant. Venafro, ma questo non era il nome vero, era giunto al castello dopo la morte del signore, quando in virtù d'una strana successione la bella marchesa di Challant, figlia legittima del vecchio signore, fu privata del feudo e del potere in favore del giovane duca di Mantova, vedovo inconsolabile della bella Eleonora, sorella di madonna Bianca, che l'aveva sposato contro il parere paterno ed era morta laggiù tra le paludi, di quel male che il Mincio produce dilagando tra i campi e nei villaggi. Si leva dal fiume impaludato un mortifero fiato, che nell'aria greve ristagna popolata di zanzare e pappatacci. Fu quell'alito morto a uccider la marchesa, il cui dolce capo, avvezzo all'aria pura che dalle cime discende per le boscose valli, al peso non resse della brumosa piana. Così tornò il duca al castello di Challant con il triste fardello d'una bara, e un lungo funebre corteo che dalla valle saliva fino al monte. Per il dolore morì poco dopo anche il vecchio marchese. Ma prima di morire aveva scritto un testamento.

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