Laura Mancinelli - I dodici abati di Challant

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I dodici abati di Challant: краткое содержание, описание и аннотация

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Sospesi tra storia e invenzione in un Medioevo che sembra vero, sono qui raccolti in un unico volume tre romanzi di Laura Mancinelli, in cui l'autrice approda a una visione fantastica e affettuosamente ironica della tradizione e della società medioevale: "I dodici abati di Challant", dove, in una cornice di ironia mondana e gaudente, dodici monaci ricevono l'incarico di sorvegliare un feudatario che eredita un castello con la clausola di mantener fede a un maligno obbligo di castità; "Il miracolo di Santa Odilia", immagine della vita che si afferma in chiave religiosa, ma non trascendente, attraverso la storia di due Odilie: la prima devota e pia, la seconda giovane e bella; e infine, conclusione ideale di questa metafora ideale, "Gli occhi dell'imperatore", dove una contessa piemontese, un cavaliere-musico-poeta e l'imperatore Federico II, ormai prossimo alla morte, partecipano a un affascinante percorso di avventure e sentimenti, che è anche un intreccio di entusiasmo, rassegnazione e senso del destino.

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- Spudorati! - gridò Ipocondrio e si sollevò la tonaca per correre verso di loro. Interruppero il bacio, guardarono verso l'abate e fuggirono ridendo. Giunto sul luogo, Ipocondrio non trovò che il secchio pieno di latte schiumoso. Intanto una viola accompagnava un'alba struggente di sensuale malinconia: era il duca Franchino, seduto a cavalcioni del parapetto del verone, e guardava verso la finestra della marchesa. Cucù, cucù, cucù: questa volta il flauto era vicinissimo, alto sulla prima cinta di mura. Certamente il piccolo suonatore insolente si nascondeva nel camminamento che orlava la prima cinta di mura, che era la più alta. O forse non aveva bisogno di nascondersi perché era così piccolo che il muretto lo copriva.

- Iddio misericordioso! - gridò Ipocondrio aguzzando gli occhi verso l'alto. Non vide nessuno, ma si ricordò che lì vicino c'era la scala che portava al camminamento. La raggiunse, salì e una violenta vertigine lo turbò tutto. Il muretto gli giungeva appena alle ginocchia. Nondimeno, coraggiosamente, sollevò la tonaca e cominciò a muovere cauti passi verso il luogo di dove era provenuto il suono.

- Cucù, cucù, cucù, - ma questa volta proveniva dalla parte opposta.

Deciso, Ipocondrio diede un forte colpo alla tonaca e ruotò su se stesso invertendo il senso del cammino. Sì, questa volta il suono era davanti a lui, ma non era il solito cucù. Il piccolo suonatore aveva attaccato una gavotta e suonava camminando davanti a lui perché il suono lo precedeva sempre. Anzi a un certo punto lo vide, il piccolo furfante: non camminava né correva, ma procedeva ballando come un piccolo dio dei campi, leggero e sicuro al riparo del duplice muretto del camminamento. Ipocondrio guardò in giù, soffocò un grido di paura e, col coraggio della dedizione al dovere, allungò il passo.

- Se lo raggiungo... - mormorò, e si sforzò di correre. Ma era troppo alto e il muretto non era per lui sufficiente riparo. La tonaca, poi, gli scivolava attorno alle gambe fasciandolo pericolosamente. Ma avanzò, malgrado tutto. Terminata la gavotta ci fu un silenzio abbastanza lungo. Ipocondrio continuava ad avanzare, benché disorientato da quel silenzio, quando, improvvisamente, un salterello indiavolato gli scoppiò alle spalle.

- Ha fatto il giro delle mura, il delinquente... - mormorò l'abate con voce affannata, e si voltò indietro per correre in senso opposto; nella fretta lasciò scivolare dalle mani la tonaca, ma incurante di tutto si slanciò all'inseguimento della musica che si allontanava saltellante e sempre più veloce ed allegra... e così cadde, nell'adempimento del dovere, dalla cinta più alta delle mura, l'altissimo abate Ipocondrio. Qualcuno dalle finestre del castello vide la grande tonaca nera svolazzare lungo il muro e ammucchiarsi poi, immobile, al suolo.

Il trovatore

- Veris ad imperia, eya, renascuntur omnia, eya...

Aprile era nato sotto il segno della pioggia, pioggia calda e sciroccosa che inturgidiva i rami degli alberi e gonfiava i semi nella terra. Una mattina, che il cielo era solcato da nuvole gravide di umori tiepidi e tempestosi, la marchesa di Challant fu destata dal canto di una strofa accompagnata dal liuto, giù nella corte. La pioggia intorbidava la luce che filtrava dalle finestre e il vento portava la canzone confondendone la voce umana che la cantava. Ma la marchesa la riconobbe, quella voce, e corse alla finestra e di dietro i vetri investiti dalla pioggia vide il cantore, avvolto in un mantello scuro, coi capelli biondi incollati sulle tempie e sul collo e gli occhi azzurri rivolti verso di lei. Appoggiò le mani aperte alla finestra, e con le mani tutto il corpo, come se volesse penetrare il vetro e uscire fuori, confondersi con la pioggia e con l'aria e volare incontro al cantore. Lui, guardando in su, dovette vedere quell'immagine bianca dietro il vetro bagnato di pioggia, perché la voce gli tremò nel canto e poi tacque, mentre la mano abbassava il liuto. La pioggia raddoppiò d'intensità e cancellò la figura della donna dietro il vetro, e quella del trovatore giù nella corte.

Quando la marchesa scese nell'atrio del castello, lui era là in piedi, col mantello bagnato e i capelli incollati al viso.

- Vi ho portato un regalo, marchesa - e, aperto il mantello, mostrò un cestino di ciliege. La marchesa lo prese, stupita.

- Ma v'è dunque un luogo, - disse, - dove le ciliege sono già mature? - V'è un luogo, madonna, dove le viti già mettono i loro piccoli grappoli, dove la malva fiorisce negli orti, dove i frutti sugli alberi già prendono il posto dei fiori.

La marchesa gli tolse dalle spalle il mantello bagnato, lo fece rivestire di panni asciutti e lo invitò a sedere davanti al camino. Al calore del fuoco, porgendogli una coppa di vino, gli chiese di quel luogo dove allora, mentre al castello di Challant le grondaie sgocciolavano l'ultima neve, maturavano quelle ciliege grandi e rosse.

- Lasciai le nevi della Savoia all'inizio del disgelo, - incominciò il trovatore, - che le montagne erano ancora piene di ghiacci. Dal castello di Chambery sono partito una mattina nella gran nebbia della valle per andare in cerca di sole. Scendevo verso sud e mi volgevo a guardare il castello in cui avevo trascorso tutto l'inverno; salutavo le torri di lontano col pensiero e spronavo il cavallo verso l'azzurro mare. Poi venne il bosco e coprì tutto al mio sguardo, coprì il cielo, il monte ed anche il castello. Camminai a lungo nell'immensa foresta ancora triste d'inverno e di neve, e sempre pensavo all'azzurro mare su cui splende il sole di Provenza. Ma, ahi, madonna, dov'era il mare, e dov'era il sole? Vagavo come un cieco nel bosco e nella nebbia e già scendeva la notte senza stelle della cupa foresta. Se avessi trovato una capanna, un fienile, una tana, mi sarei gettato a dormire, come un re nel suo letto di lana: ma non trovai nessun asilo, o la foresta era tanto buia e fitta che io non lo vidi. Camminavamo tristi, io e il mio cavallo, e nostro albergo, quella notte, fu solo il mio mantello. Già senza forze giacevo sulla sua groppa, stremato dal freddo dalla paura e dalla fame, quando sentii il cavallo animarsi sotto il mio corpo, dare uno scarto, e ravvivare il passo. Sollevai la testa e tra le stanche ciglia vidi un chiarore tra i nudi rami del bosco, un pallido livido chiarore come d'alba che stenti tra le nubi. La foresta s'andava diradando, il chiarore si fece di grigio lievemente biancastro e quando il buon cavallo m'ebbe portato fuori del bosco io mi ritrovai in una gran pianura aperta, e nella nebbia chiara di sole sorgente udii un fresco frusciare di acque. La nebbia si sciolse sul lago di Bourget mentre il disco del sole appariva rosso sull'orizzonte e scopriva i monti ancora bianchi di neve e ancora più bianca, al di là del gran lago, la serena visione di un bianco convento. Là dirigemmo i nostri passi stanchi e là ci accolsero le fide mura orlate di brina. Un giorno ed una notte riposammo nel convento e poi scendemmo giù lungo il fiume che dai monti di Savoia discende verso il mare. Il cielo si faceva sempre più azzurro, la campagna sempre più viva; circolava per l'aria un profumo di fiori, un caldo profumo dolce-amaro che andavo aspirando senza capire donde venisse. Poi, infine, li vidi, fioriti tra le torri d'Avignone, i bianchi mandorli dal profumo dolce-amaro, quei mandorli fioriti sotto cielo benigno che conosce il sole anche nell'inverno. La città era piena di fiori, narcisi e lunghi giaggioli dorati, legati a mazzi ai tronchi delle querce che, pigre, non avevano ancora la loro fronda verde. Ma l'azzurro mare mi chiamava verso il sud e lasciai Avignone tra balli e canti che festeggiavano la primavera, ed ecco, a un tratto sotto le zampe del cavallo verdeggiava la Camargue chiazzata di eriche viola e bianchi gigli d'acqua profumati. Le cavalle pascolavano con i loro puledrini dubitosi sulle scarne lunghe zampe e i cavalli selvaggi correvano a torme tra i roveri e i biancospini appena rifioriti. Le cicogne nel cielo viaggiavano verso settentrione.

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