Emilio Salgari - I figli dell'aria
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- Название:I figli dell'aria
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Pei recidivi hanno la cangue, che i cinesi chiamano veramente kia, specie di tavola che pesa ordinariamente quindici chilogrammi e che serve per imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani.
Parrebbe a prima vista una pena tollerabilissima; invece finisce per diventare estremamente dolorosa, perché il povero condannato non può mangiare da solo e sovente corre il pericolo di morire di fame per incuria dei carcerieri.
E questo non è tutto. Dopo un mese le spalle si rompono e si coprono di piaghe e quando la pena è finita, il prigioniero non è più che uno scheletro. Sono queste le torture minime, che di rado uccidono. Hanno poi gabbie strettissime dove il condannato è costretto a vivere ripiegato in due per mesi e mesi, rovinandosi le carni contro i bambù e storpiandosi le membra; hanno gabbioni più vasti dove si ammucchiano in una sola volta perfino quindici condannati, ai quali i carcerieri danno di rado da mangiare e dove sono costretti a vivere fra la più ripugnante sporcizia.
Hanno poi altre gabbie irte di chiodi che traforano atrocemente le gambe e le mani dei pazienti; coltelli d’ogni dimensione per tagliuzzare la pelle e quindi strapparla a lembi, funi per strangolare, tenaglie roventi per strappare la carne; poi la terribile pena del ling-cink, ossia del taglio dei diecimila pezzi.
La decapitazione poi è cosa comune e si eseguisce in pubblico, sotto una tettoia, mediante una larga sciabola, pena forse più temuta delle altre, non amando il cinese andarsene all’altro mondo colla testa staccata.
E quali orrori poi dentro le carceri! Non sono carcerieri, sono feroci manigoldi, che inchiodano alle pareti le mani dei prigionieri allorquando mancano le catene; che bastonano senza pietà quelli rinchiusi nelle gabbie per farli tacere, quando quei miseri non possono sopportare più oltre l’atroce martirio; che preferiscono appropriarsi dei viveri che il governo assegna alle amministrazioni delle carceri; e che piuttosto di incomodarsi, allorquando qualche prigioniero muore molto sovente di fame, lo lasciano imputridire nella sua gabbia in attesa che i topi lo facciano sparire!
. . . . . . . . . . . . . . .
Fedoro e Rokoff erano rimasti come inebetiti dall’orrore, dinanzi all’atroce scena che si svolgeva sotto i loro occhi.
Intorno a tutte quelle gabbie, degli aguzzini armati di bastoni e di ferri infuocati, bastonavano senza posa i disgraziati che vi stavano rinchiusi o rigavano a fuoco lo loro membra anchilosate, provocando urla e strida orribili.
Erano almeno una dozzina che s’accanivano con un sangue freddo ributtante, contro una trentina di prigionieri impacchettati fra le traverse di bambù, spaventosamente magri, tutti più o meno sanguinanti, colle vesti stracciate e gli occhi enormemente dilatati dal terrore.
– Ma questa è una bolgia infernale! – esclamò finalmente Rokoff. – E oserebbero applicare anche a noi quelle torture? Parla, Fedoro!
– No… non è possibile – rantolò il negoziante di tè, che aveva l’aspetto d’un pazzo. – No… una simile infamia contro di noi!…
– Fedoro, che cosa possiamo tentare? Ci lasceremo torturare e assassinare in questo modo da queste canaglie? Noi siamo innocenti.
– Non so che cosa risponderti, mio povero amico.
– Ciò che ci succede è spaventevole! No, non può essere che un sogno! – gridò Rokoff.
– È pura realtà, amico mio.
– E non tenteremo nulla?
– Non possiamo far altro che rassegnarci.
– Ah! no, vivaddio! Io spezzerò questa gabbia maledetta e farò un massacro di tutti!
– Non riuscirai ad abbattere le traverse – disse Fedoro.
– Lo credi? Ebbene, guarda!
Il cosacco, a cui il furore centuplicava le forze, afferrò due canne e le scosse con tale rabbia, da farle inarcare e scricchiolare.
Un carnefice, che stava rigando le cosce ad un disgraziato prigioniero mediante una sbarra di ferro arrossata al fuoco, accortosi di quell’atto, accorse, vociando e minacciando.
– Toccami, se l’osi! – urlò Rokoff, allungando le mani attraverso le canne.
Quantunque l’aguzzino non avesse potuto comprendere la frase, vedendo quell’Ercole in quella posa, si era arrestato titubando.
– Noi siamo europei! – gridò Fedoro. – Guardati, perché le Ambasciate ci vendicheranno e vi faranno uccidere tutti.
Quella minaccia, forse più che l’atteggiamento del cosacco, aveva fatto indietreggiare il carnefice.
– Europei! – aveva esclamato.
Poi, passato il primo istante di stupore e anche di terrore, aveva rialzata l’asta infuocata, minacciando d’introdurla fra le traverse e di calmare i due prigionieri con qualche puntata.
– Giù quel ferro! – urlò Rokoff, scuotendo le canne con maggior vigore. – Giù o ti strangolo come un cane.
– Tu non mi fai paura – rispose l’aguzzino. – Ora lo vedrai.
Stava per farsi innanzi, quando la porta della sala si aprì lasciando il passo al magistrato che aveva arrestato i due europei nella casa di Sing-Sing. Vedendo il carnefice avvicinarsi alla gabbia, con un grido lo arrestò.
– No, costoro – disse precipitosamente – non ti appartengono! Vattene! Vedendolo, anche Fedoro si era afferrato alle canne, gridandogli:
– Canaglia! Mettici subito in libertà! Tu sai che siamo stati condannati senza colpa e che gli assassini sono gli affigliati della «Campana d’argento».
– La liberazione non è lontana – rispose il magistrato. – Abbiate pazienza fino a domani.
– Allora levateci da questa gabbia.
– È impossibile per ora.
– Noi non possiamo resistere a queste atroci scene.
– V’interessate di quei banditi? – chiese il magistrato.
– Non siamo abituati ad assistere a simili torture.
– Manderò via i carnefici.
– E fate dare da mangiare a quei miserabili che muoiono di fame. La vostra giustizia vi disonora.
– Avranno dei cibi, – rispose il magistrato. – I nostri carcerati sono trascurati, questo è vero.
Con un gesto che non ammetteva replica, fece uscire tutti; poi, rivolgendosi ai due europei, disse:
– Non farete nulla per informare la vostra ambasciata fino a domani mattina? Solo a questa condizione io vi prometto di lasciarvi tranquilli.
– Avete la nostra parola – rispose Fedoro.
– Vi farò subito servire il pasto.
– Se non possiamo quasi muoverci?
– Vi ho detto che pel momento non posso liberarvi, perché la grazia dell’Imperatore non è ancora giunta. Tranquillatevi e abbiate fiducia nella giustizia cinese.
– Che cosa ti ha detto quel miserabile? – chiese Rokoff, quando il magistrato fu lontano.
– Che domani saremo liberi – rispose Fedoro, raggiante. – Essi hanno avuto paura di qualche denuncia all’ambasciata. Hanno voluto solamente spaventarci, sperando forse che noi confessassimo il delitto che non abbiamo commesso.
– Ti giuro che non me ne andrò da Pechino senza strangolare qualcuno. Mi prendano poi, se ne saranno capaci.
– E chi?
– Quel furfante di maggiordomo.
– Ti prometto di aiutarti. Egli è stato la sola causa delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della «Campana d’argento», messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone.
– Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco.
Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate. Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell’ufficiale dei cosacchi.
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