Emilio Salgari - I figli dell'aria

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Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d’una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari.

Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime.

Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di tè recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione.

Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all’eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S’intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all’indomani sarebbero stati rimessi in libertà.

– Fedoro – disse Rokoff, quando furono soli. – Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie.

– Senza liberarci però – rispose il russo, che pareva un po’ preoccupato. – Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci.

– No, ma… vorrei essere già lontano da qui.

– Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo a comperare il tè a Canton od a Nan-King o in qualche altro luogo. Qui non ci fermeremo nemmeno un’ora dopo…

– Dopo che cosa?

– Che avremo strangolato il maggiordomo. Per le steppe del Don! Quel gaglioffo non vedrà tramontare il sole domani sera, parola di Rokoff!

Fedoro non rispose e si accomodò alla meglio per dormire. Ciò era possibile, perché gli altri condannati, dopo la zuppa somministrata loro dai carcerieri, avevano cessato di urlare.

Rokoff, vedendo il compagno chiudere gli occhi, si allungò quanto glielo consentiva lo spazio e cercò d’imitarlo, sognando già di sentire sotto le mani il collo del maggiordomo di Sing-Sing. All’indomani, quando riaprirono gli occhi, svegliati dalle urla degli affamati, ai quali la zuppa del giorno innanzi non era stata sufficiente a calmare i lunghissimi digiuni, Fedoro e Rokoff videro la loro gabbia circondata da otto robusti facchini.

Due lunghe aste, un po’ elastiche, erano state passate fra le canne che formavano la parte superiore della piccola prigione, assicurandole con corde.

– Pare che si preparino a portarci via – disse Rokoff. – Che ci conducano all’ambasciata rinchiusi qui dentro? Potevano metterci in una portantina, questi spilorci; avrei pagato ben volentieri il nolo.

Fedoro non aveva risposto. Guardava con viva inquietudine i facchini, chiedendosi dove lo avrebbero portato.

Cercò cogli sguardi il magistrato, ma non era ancora giunto. Invece erano entrati dodici soldati, armati di fucili, guidati da un ufficiale che faceva pompa d’una larga e lunghissima scimitarra.

– Fedoro, – riprese Rokoff – dove vogliono condurci? Domanda a quel comandante perché non ci mettono subito in libertà, come ci aveva promesso il magistrato. Tu non mi sembri tranquillo.

– È vero, Rokoff; sono preoccupato per l’assenza del magistrato.

– Si sarà ubriacato d’oppio e giungerà più tardi.

In quel momento l’ufficiale si avvicinò ai facchini, dicendo:

– Andiamo.

– E dove? – chiese Fedoro, mentre la gabbia veniva alzata.

Il comandante del drappello guardò il russo con stupore, inarcando le sopracciglia. Forse era sorpreso di sentirsi interpellare da un prigioniero.

– Vi ho domandato dove ci volete condurre – replicò Fedoro. – Ci era stata promessa la libertà per stamane.

– Ah! – fece l’ufficiale.

Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse:

– Orsù, sbrigatevi.

Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più tardi e dal drappello dei soldati.

L’ufficiale marciava innanzi a tutti, colla scimitarra sfoderata.

– Comprendi nulla tu? – chiese Rokoff al negoziante di tè.

– Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà – rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano.– Vedremo come finirà questa avventura.

Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione.

La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù.

– Questi cinesi vogliono rovinarci – disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. – Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po’ la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone!

Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell’impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi.

Sempre scortati dai manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l’ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata.

– Dove ci conducono, Fedoro? – chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni.

– Vorrei saperlo anch’io.

– All’ambasciata no di certo.

– Siamo usciti dalla città.

– E ci dirigiamo?

– Verso il Pei-Ho, se non m’inganno. Ah! Mi viene un sospetto.

– E quale Fedoro?

– Che c’imbarchino su qualche giunca e che ci traducano a Tient-sin o fino al mare per impedirci di fare i nostri reclami all’ambasciata russa.

– Ci sfrattano dall’impero?

– Lo suppongo, Rokoff.

– Che ci mandino via non m’importa: mi rincresce solo di andarmene senza aver strozzato quel cane di maggiordomo. Però non siamo ancora giunti al mare.

Il carro intanto continuava la sua corsa indiavolata, seguendo sempre le mura della capitale, robustissime ancora, quantunque contino molti secoli, alte nove metri, con uno spessore di cinque, tutte lastricate in marmo, con bastioni, torri, fossati e cannoniere in gran numero, guardati però, per la maggior parte, da pezzi d’artiglieria di legno.

Di quando in quando passava in mezzo a borgate popolose, circondate da ortaglie, attirando l’attenzione dei passanti, i quali però rimanevano subito indietro tutti, perché i cavalli non rallentavano il galoppo.

Attraversato su un ponte di pietra il canale fangoso che viene chiamato pomposamente «fiume» e che altro non serve che ad alimentare gli stagni ed i laghetti dei giardini del palazzo imperiale, il carro si diresse verso il nord-est.

– Mi pare che ci conducano a Tong – disse Fedoro.

– Che cos’è?

– Una borgata sulle rive del Pei-Ho.

– Allora tu devi aver ragione. Vogliono imbarcarci.

– Tale è ancora la mia opinione, Rokoff.

– Purché facciano presto! Io ho tutte le membra rotte e se questa corsa dovesse durare ancora poche ore, non potrei più fare un passo. È così che trasportano i detenuti queste canaglie cinesi?

– Sì, Rokoff.

– In conclusione, trattano i prigionieri come polli.

– Né più né meno – rispose Fedoro.

– Bel sistema per far rompere le gambe.

– Che ha però il vantaggio; di rendere le evasioni impossibili.

– In quale stato devono giungere i condannati che si mandano dai paesi lontani!

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