Emilio Salgari - I figli dell'aria
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- Название:I figli dell'aria
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Un uomo, vestito di flanella bianca, era sceso rapidamente balzando verso i due europei, che erano rimasti immobili, come se lo stupore li avesse paralizzati. Con pochi colpi di coltello tagliò le loro corde, poi, alzandoli, disse in francese:
– Presto! Salite! I cinesi tornano!
Rokoff ebbe appena il tempo di mormorare un «grazie».
Si precipitò verso la scala, scavalcò un parapetto e cadde fra le braccia di un altro uomo. Udì confusamente un fischio acuto che pareva mandato da qualche macchina a vapore, poi dei colpi di fucile, delle urla lontane, poi vide due immense ali sbattere vivamente e rimpicciolirsi rapidamente il palco, la piazza e la folla… poi più nulla…
. . . . . . . . . . . . . . .
Quando Rokoff tornò in sé, si trovò sdraiato su un soffice materasso, a fianco di Fedoro, sotto un tendaletto che lo riparava dai raggi del sole.
Un profondo silenzio regnava attorno a lui: le grida della folla e i colpi di fucile erano cessati. Sentiva solamente delle leggere scosse e una forte corrente d’aria che gli procurava un dolce benessere.
Per un momento credette davvero di essere stato decapitato dal gigantesco carnefice e di viaggiare in un altro mondo. Se era vero, la morte, dopo tutto, non doveva essere spiacevole, né così paurosa come si credeva. Si portò le mani alla testa, con un moto rapido… e… con sua sorpresa la trovò a posto.
– Che mi abbiano invece fucilato? – si chiese.
S’alzò di scatto guardandosi le vesti e non vide alcuna macchia di sangue. Nemmeno Fedoro aveva la casacca lorda.
– Che io sogni? – si domandò.
Un lungo sibilo, che pareva uscisse da qualche macchina, lo fece sobbalzare.
Un’ombra umana si delineava dinanzi a lui. La guardò con paura.
Non era un’ombra, era un uomo, un bell’uomo anzi, di statura alta e di forme eleganti, colla pelle leggermente abbronzata, con due occhi nerissimi e pieni di splendore, con una barba pure nera pettinata con gran cura.
Era vestito tutto di bianco, con una larga fascia rossa che gli stringeva i fianchi, e calzava alti stivali di pelle nera.
Anche quell’uomo lo guardava, ma sorridendo.
– Dove sono io? – chiese Rokoff.
– A bordo del mio «Sparviero» – rispose lo sconosciuto nell’egual lingua. – Siete sorpreso, è vero? Ciò non mi stupisce.
Poi, con una certa meraviglia, chiese:
– Voi non siete un cinese, quantunque ne indossiate il costume, è vero?
Invece di rispondere a quella domanda, Rokoff aveva chiesto:
– Ditemi, signore: sono vivo o sono morto?
– Mi pare che siate vivo – rispose lo sconosciuto, ridendo. – Però se avessi tardato solamente qualche minuto, non so se la vostra testa si troverebbe ancora sulle vostre spalle.
Il cosacco aveva mandato un grido. La memoria gli era prontamente ritornata.
Rivide tutto d’un colpo la piazza affollata dal popolaccio furioso, il palco, il carnefice, poi quel mostro scendere precipitosamente e rapirlo fra i colpi di fucile dei soldati cinesi. Ci volle però qualche minuto prima che le sue idee si riordinassero.
Balzò innanzi e porse la mano allo sconosciuto, dicendogli con voce commossa:
– M’avete salvato… grazie signore… vi devo la vita…
– Bah! Un altro, al mio posto, avrebbe fatto altrettanto! Siete russi?
– Sì, signore, e voi?
Il comandante dello «Sparviero» lo guardò senza rispondere. Una profonda ruga gli si era disegnata sulla sua ampia fronte, mentre nei suoi occhi era balenato uno strano lampo.
– Vi avevo creduto cinesi – disse poi con voce lenta, misurata. – Tuttavia sono lieto di aver strappato due europei alla morte, quantunque ignori ancora il motivo per cui eravate stati condannati alla decapitazione.
– Ah! Signore! Anche voi dubitate della nostra innocenza! – esclamò Rokoff. – Credete voi che un onorato ufficiale dei cosacchi del Don, che ha due medaglie al valore guadagnate sotto Plewna e che uno dei più ricchi negozianti di tè della Russia meridionale abbiano potuto assassinare un cinese per derubarlo?
– Io non so a quale delitto volete alludere – disse lo sconosciuto, con tono però meno duro, – e non dubito affatto che voi siate due galantuomini.
– Siamo due vittime dell’odio secolare dei cinesi contro gli uomini di razza bianca.
– Non metto in dubbio ciò che mi dite e per darvene una prova ecco la mia mano signor…
– Dimitri Rokoff… del 12° Reggimento dei cosacchi del Don.
Si strinsero la mano, poi il comandante dello «Sparviero» disse:
– Venite: voi non avete ancora veduto la mia macchina.
– Ed il mio amico?
– Lasciatelo riposare. L’emozione provata deve averlo abbattuto. È il negoziante di tè costui?
– Sì, signor…
– Chiamatemi semplicemente «il capitano».
– Un capitano russo, perché parlate la nostra lingua come foste nato sulle rive della Neva o del Volga.
Un sorriso enigmatico si delineò sulle sottili labbra del capitano.
– Parlo il russo come il francese, l’italiano, il tedesco, l’inglese e anche il cinese. Vedete dunque che la mia nazionalità è molto difficile da indovinare. Ma che importa ciò? Sono un europeo come voi e ciò basta, o meglio sono un uomo di razza bianca. Venite, signor Rokoff, ah! Soffrite le vertigini?
– No, capitano.
– Meglio per voi: godrete uno spettacolo superbo, perché in questo momento noi ci libriamo sopra Pechino. Macchinista!
– Signore – rispose una voce.
– Rallenta un po’. Voglio godermi questo meraviglioso panorama.
Stavano per uscire da quella specie di tenda, quando Rokoff udì Fedoro gridare con accento atterrito:
– La mia testa! La mia testa!
Il cosacco si era precipitato verso l’amico, frenando a malapena una risata.
– L’hai ancora a posto, Fedoro! – esclamò. – Quei bricconi non hanno avuto il tempo di tagliartela.
Il russo si era alzato, guardando sbalordito ora Rokoff ed ora il comandante dello «Sparviero».
– Rokoff! – esclamò. – Dove siamo noi?
– Al sicuro dai cinesi, amico mio.
– E quel signore? Ah! Mi ricordo! L’uccello mostruoso! Il rapimento al volo! Voi siete il nostro salvatore!
– Io non sono che il capitano dello «Sparviero» – rispose il comandante, tendendogli la mano. – Signore, non avete più da temere, perché siamo ormai lontani da Tong. Venite: vi mostrerò la mia meravigliosa macchina volante o meglio la mia aeronave. Macchinista! Preparaci intanto la colazione.
UNA MACCHINA MERAVIGLIOSA
«La mia meravigliosa aeronave» aveva detto il comandante. Ah! Era ben meravigliosa quella macchina volante che aveva rapito, sotto gli occhi stupiti dei cinesi, i due prigionieri condannati a morte. Rokoff e Fedoro, appena usciti dalla tenda, si erano arrestati mandando un duplice grido di sorpresa e di ammirazione. Quale splendido congegno aveva ideato quello sconosciuto che si faceva chiamare «il capitano!» Era lo scioglimento dell’arduo problema della navigazione aerea, che da tanti anni turbava la mente degli scienziati, e quale scioglimento! Una perfezione inaudita, assolutamente sbalorditiva.
Dapprima Rokoff e Fedoro avevano creduto di trovarsi dinanzi ad uno dei soliti palloni, dotato di qualche motore, ma si erano subito disingannati. Non era un aerostato, era una vera macchina volante, una specie di uccellaccio mostruoso, che solcava placidamente l’aria coll’arditezza e la sicurezza dei condor delle Ande o delle aquile.
Un uccello veramente non lo si poteva chiamare, quantunque nelle ali e nel corpo ne rammentasse la forma.
Consisteva in un fuso lungo dieci metri, con una circonferenza di tre nella parte centrale, costruito in un metallo argenteo, probabilmente alluminio, nel cui centro si vedeva un motore che non doveva però essere mosso né dal carbone, né dal petrolio, né da alcun olio o essenza minerale, perché non si vedeva fumo né si sentiva alcun odore.
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