Emilio Salgari - I figli dell'aria

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– E lontani centinaia di miglia? – aggiunse Fedoro.

– All’inferno i cinesi!

– Vedo delinearsi all’orizzonte delle abitazioni. —

– Che sia la borgata?

– Sì, Rokoff; il Pei-Ho deve scorrere dietro di essa, perché vedo anche delle piante d’alto fusto. La nostra prigionia sta per cessare.

I cavalli acceleravano la corsa, attraversando la pianura piuttosto arida che si estende intorno all’immensa capitale.

I manciù si erano divisi in due drappelli: uno marciava innanzi al carro; l’altro dietro.

Come se temessero qualche sorpresa, avevano levato i moschetti che fino allora avevano tenuto appesi alla sella e sguainate le scimitarre.

In lontananza si udiva un fragore confuso che pareva aumentasse di momento in momento. Erano urla acute, tocchi di tam-tam e muggiti di conche marine.

Si sarebbe detto che una folla enorme si accalcava intorno alla borgata.

– Che siamo aspettati? – chiese Rokoff.

– Non so – rispose Fedoro, il quale era diventato pallido.

Si era alzato sulle ginocchia, spingendo lontani gli sguardi.

Di fronte alla borgata, una folla enorme si accalcava su una pianura sabbiosa, agitandosi disordinatamente e urlando a piena gola. Pareva che succedesse qualche straordinario avvenimento.

Quando il carro giunse sul margine della pianura, la folla si squarciò di colpo per lasciare il passo, mentre da ventimila petti usciva quell’urlo terribile che è suonato agli orecchi degli europei come una tromba funebre durante le insurrezioni mongoliche:

– Fan-kwei-weilo! Weilo!

Fedoro aveva mandato un grido d’orrore.

In mezzo a quel mare di teste rasate aveva veduto ergersi un palco, e su esso, ritto come una statua di bronzo giallo, un uomo di statura quasi gigantesca, che s’appoggiava ad una larga scimitarra.

Era un carnefice in attesa delle sue vittime.

I FIGLI DELL’ARIA

La benda era caduta dinanzi agli occhi dei due europei: la doppiezza e l’astuzia della razza mongola ancora una volta avevano vinto.

Le promesse e le gentilezze del magistrato, non avevano avuto che uno scopo solo: quello di addormentare gli europei, cullandoli in una fallace speranza di libertà.

Condannati a morte dai mandarini, onde evitare che potessero in qualche modo informare l’ambasciata, il miserabile magistrato li aveva indegnamente ingannati, affinché la giustizia potesse avere il suo corso senza sorprese inaspettate.

Per maggior precauzione, quantunque camuffati da cinesi, quel briccone li aveva tratti lontani dalla capitale, per impedire che nessun europeo potesse intervenire.

Se una tale esecuzione poteva suscitare dei sospetti a Pechino, a Tong non doveva trovare ostacoli.

Il colpo, abilmente preparato, come si vede era riuscito pienamente e fra pochi minuti le teste del cosacco e del russo dovevano, al pari dei deliquenti cinesi, cadere sotto un buon colpo di scimitarra, per venire poi esposte in qualche gabbia appesa su una pubblica piazza.

Rokoff, comprendendo che la sua esistenza stava per finire, era stato preso da un tale eccesso di furore, da temere che demolisse la gabbia e si scagliasse, come una belva feroce, contro la folla urlante. Il cosacco, sapendosi innocente, non voleva morire senza lotta, né invendicato.

Spezzato, con uno sforzo supremo, un bambù della gabbia, aveva allungato un braccio tra le traverse, tempestando le zucche pelate del popolaccio che si accalcava intorno al carro.

Erano legnate tremende, che facevano risuonare i crani come tam-tam e che strappavano urla di dolore ai colpiti. Fortunatamente la scorta, occupata ad aprirsi il passo, non aveva tempo d’impedirgli quella manovra pericolosa.

– Cani dannati! – urlava il cosacco, scrollando la gabbia e cacciando il bambù negli occhi dei più vicini. – Prendete! A te zucca fessa! Non avrai più bisogno degli occhiali! Ci volete assassinare! Per le steppe del Don! Non siamo ancora morti.

Anche Fedoro, che una bella collera bianca aveva reso furioso, non stava inoperoso.

Era già riuscito a strappare un paio di code e a spaccare il muso a un gran diavolo di mongolo, tirandogli addosso una scarpa.

Il carro però procedeva rapido verso il palco, urtando la folla e rovesciando i più accaniti. Il conduttore, temendo che i due prigionieri non giungessero vivi fino al palco, tanta era l’esasperazione del popolaccio, non badava a storpiare uomini e ragazzi.

Anche i cavalieri manciù non risparmiavano le piattonate e le puntate, pur di farsi largo e di sgombrare il passo. Sagravano come turchi, facevano impennare i cavalli e minacciavano di far uso dei moschetti.

Con tutto ciò, ci vollero non meno di venti minuti prima che il carro potesse giungere presso il palco, il quale era guardato da un doppio cordone di fantaccini. In un batter d’occhio la gabbia fu levata e venti braccia la spinsero fino sulla piattaforma, dove il carnefice, sempre impassibile, attendeva il momento di far uso della sua scimitarra.

Il coperchio fu subito levato e i due europei, nonostante la loro disperata resistenza, furono trascinati fuori fra le urla di gioia del popolaccio. Mentre alcuni soldati tenevano fermi Rokoff e Fedoro, stringendoli brutalmente per la gola, altri legavano ai due disgraziati le mani dietro il dorso e le gambe.

Il cosacco però aveva ancora avuto il tempo di mordere crudelmente il braccio ad uno degli aguzzini, strappandogli ad un tempo un pezzo di stoffa e di carne.

– Assassini! Miserabili! – vociava. – Siamo innocenti! Vili! Ma la Russia ci vendicherà!

Furono spinti in mezzo al palco, e dopo averli costretti ad inginocchiarsi, vennero lasciati soli col carnefice, il quale stava provando il filo della scimitarra.

– Fedoro… è finita – disse Rokoff. – Fra pochi secondi ci rivedremo in cielo. Mostriamo a questi miserabili come sanno morire gli europei.

– Addio Rokoff – disse il russo con voce commossa. – Perdonami di averti perduto.

– Taci… non parlare di ciò… la colpa è di queste canaglie… Ehi, carnefice, fa il tuo dovere e…

La sua voce era stata improvvisamente soffocata da un immenso urlo che non era più di gioia. Pareva che un terrore inesprimibile si fosse manifestato fra il popolo che si accalcava attorno al palco.

Anche il carnefice aveva abbassato la scimitarra, facendo un gesto di spavento.

Tutti guardavano in aria agitando pazzamente le braccia, col terrore negli occhi, senza essere quasi più capaci di gridare. Che cosa avveniva in alto, lassù nel cielo?

Fedoro e Rokoff, stupiti da quell’improvviso silenzio e dall’atteggiamento pauroso di tutta quella gente, avevano pure alzato il capo.

Un grido sfuggì dai loro petti.

Un uccello di dimensioni gigantesche, di forme strane, che scintillava ai raggi del sole come se le sue penne fossero cosparse di polvere d’argento, piombava sul palco con velocità fulminea.

Che cos’era? Un’aquila di nuova specie od un mostro caduto da qualche astro?

Vedendolo ingrandire a vista d’occhio e precipitarsi sulla piazza, i cinesi, pazzi di terrore, si erano rovesciati verso Tong, urlando spaventosamente, urtandosi, atterrandosi e calpestandosi.

Anche i soldati dopo una breve esitazione, si erano scagliati dietro ai fuggiaschi gettando via perfino i fucili per correre più presto e il carnefice li aveva seguiti, balzando come un’antilope.

– Fedoro!

– Rokoff!

– Un mostro!

– Ma no… non è possibile.

– Un drago!

– Vedo degli uomini!…

– Siamo salvi! Una macchina volante… un pallone… Odi?

Una voce che scendeva dall’alto, una voce energica, imperiosa, aveva gridato prima in francese, poi inglese:

– Non temete… vi salviamo… spezzate i legami… Pronto! Gettala!

Una scala di seta era caduta, svolgendosi rapidamente e toccando con una delle estremità il palco.

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