Emilio Salgari - I figli dell'aria
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- Название:I figli dell'aria
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– Che ci prendano per mostri?
– Crederanno lo «Sparviero» un drago sceso dalla luna.
– Che ci sparino addosso? – chiese Fedoro.
– Non credo, avendo troppa paura dei draghi – disse il capitano sorridendo. – D’altronde ci è facile metterci fuori di portata, potendo il mio «Sparviero» raggiungere delle altezze incredibili, dove certo non arrivano le palle dei più potenti cannoni. Finché si accontentano di urlare e di battere i loro gong, lasciamoli fare. Ecco i palazzi imperiali. Che cosa ne dite di tanta magnificenza?
La città tartara od imperiale, è divisa pure in due città ben distinte, da muraglie altissime, tinte di rosso e difese da bastioni e da torri.
Nella prima abitano i funzionari e i soldati; nella seconda l’imperatore e i principi del sangue, ciambellani, e così via, i quali, tutti insieme, raggiungono la popolazione di una città di terz’ordine.
Ha quattro porte che corrispondono coi quattro punti cardinali e che nessuno può varcare senza speciale permesso ed è chiamata la città gialla ossia santa.
Quivi palazzi grandiosi del più puro stile cinese, gallerie immense sostenute da colonne dorate, tetti a punte arcuate con tegole di porcellana, cortili immensi lastricati di marmo bianco e adorni di mostruosi draghi e di chimere di bronzo, giardini meravigliosi, viali ricchi d’ombre, chioschi e padiglioni che sembrano formati di merletti, ponti, canali e laghetti dove si cullano barchette scolturate e ricche di dorature.
Nel centro sorgono due colline, erette dalla mano dell’uomo, dalle cui cime il possente imperatore può dominare tutta la immensa città che lo circonda. La più alta, chiamata Meician, o Montagna del Carbone, e se si deve credere ad una leggenda popolare, poserebbe su colossali depositi di carbone, accumulati nell’eventualità d’un lungo assedio.
Anche intorno ai palazzi imperiali e nei giardini, regnava una confusione straordinaria, suscitata dall’improvvisa comparsa del mostruoso uccello. Guardie imperiali, armate di fucili, accorrevano da tutte le parti urlando e facendo muggire le conche di guerra e sulle terrazze e nelle gallerie si vedevano raggrupparsi donne manifestando il loro spavento con gesti disperati. Forse anche l’Imperatore si era degnato di lasciare i suoi appartamenti per vedere quell’uccellaccio di nuova specie, che osava volteggiare sopra i tetti e gli alberi della città inviolabile.
– Capitano – disse ad un tratto Rokoff, indicandogli un bastione sul quale si erano aggruppati parecchi soldati. – Si preparano a far fuoco contro di noi. Stanno puntando un pezzo d’artiglieria.
– Sono a milleduecento metri – rispose l’aeronauta con voce tranquilla. – Spareranno male di certo, tuttavia prendiamo le nostre precauzioni. Avete veduto abbastanza la città gialla? Allora possiamo andarcene. Ehi, macchinista?
– Signore!
– Saliamo e aumentiamo.
– Subito, capitano.
In quell’istante sul bastione si vide una nube di fumo attraversata da un getto di fuoco, poi si udì una detonazione.
Un sibilo acuto, che aumentava rapidamente, giunse agli orecchi degli aeronauti, poi si perdette in lontananza.
– Troppo bassa – disse il capitano, senza perdere un atomo della sua calma. – Ero certo che ci avrebbero sbagliati.
Lo «Sparviero» s’innalzava sbattendo vivamente le sue ali, le quali provocavano una forte corrente d’aria.
Salì fino a seicento metri, descrivendo una spirale, poi si slanciò innanzi colla rapidità d’una rondine e passò sopra gli opposti bastioni, dirigendosi verso il nord.
– Dove andiamo, signore? – chiese Rokoff, vedendo che lo «Sparviero» si allontanava dalla capitale.
– A far colazione per ora – rispose il capitano. – La pianura di Pechino non ha nulla d’interessante per trattenerci qui. Più tardi vi sarà qualche cosa da vedere, prima di andarcene verso la grande muraglia.
– Ma la vostra direzione quale sarebbe? – insistette Rokoff.
– Il nord – rispose asciuttamente il capitano. – Macchinista è pronta la colazione?
– Sì, signore.
– Venite – disse il comandante volgendosi verso Rokoff e Fedoro. – Suppongo che avrete fame.
– Come lupi a digiuno da una settimana – rispose il cosacco. – Le razioni dei carcerati non sono abbondanti nelle prigioni cinesi.
– Lo so, anzi si corre sovente il pericolo di morire molto spesso di fame – disse l’aeronauta. – Si fa molto economia là dentro.
Il macchinista, legata la piccola ruota del timone che serviva a far agire le alette di poppa, in pochi istanti aveva apparecchiata la tavola situata dietro la macchina, al riparo d’una tenda.
Tovaglia di Fiandra finissima, piatti e posate d’alluminio, bicchieri di cristallo di Boemia, poi tondi contenenti dell’arrosto freddo, delle costolette, dei salumi, delle frutta: ricchezza, buon gusto ed abbondanza insieme.
Una cosa aveva però subito colpito il russo ed il cosacco: vivande e frutta erano coperte da un leggero strato scintillante che pareva ghiaccio.
– Assaggiate questo capretto arrostito – disse il capitano. – Quantunque sia stato cucinato in Giappone, deve essere ancora squisito.
Rokoff e Fedoro si guardarono l’un l’altro con stupore.
– Anche queste costolette, sebbene arrostite a Tahiti, devono essere eccellenti.
– Ma… scherzate? – chiese il cosacco,. il cui stupore era al colmo.
– E questo pasticcio di carne che ho fatto preparare a San Francisco di California? – continuò il comandante, che pareva si divertisse molto della meraviglia dei suoi ospiti. – Ho però di meglio. Ecco una trota preparata a Nuova York, in uno dei principali alberghi. L’hanno messa a friggere quarantadue giorni or sono, pure rispondo della sua freschezza. Assaggiate, signori miei. Se fosse stata pescata ieri sera, non sarebbe più deliziosa.
Rokoff che amava il pesce, quantunque poco persuaso delle parole dette dal capitano, si provò ad assalire quella trota che veniva dalla lontana capitale degli Stati Uniti.
– Che cosa dite? – chiese il comandante, con accento malizioso.
– Squisita… eccellente… solamente la trovo terribilmente fredda… come se fosse stata pescata in qualche fiume gelato della Siberia e lasciata a ghiacciare per un mese. Avete dunque una ghiacciaia a bordo del vostro «Sparviero»?
– Sì, e una ghiacciaia che vi farebbe gelare per sempre in meno di due minuti – rispose il capitano.
– Avete qualche macchina da ghiaccio?
– Ho di meglio, signor Rokoff. A voi queste uova. Provate a spezzarle
– Sono coperte da uno strato di ghiaccio.
– Vi pare ma non sono tali. Rompetele e mangiate.
Il cosacco tentò di aprirle, ma il guscio resistette a tutti i suoi sforzi.
– Vi occorre un martello – disse il capitano. – Il macchinista le ha lasciate gelare troppo. Assaggiate invece questo ananas raccolto alle Marianne.
– Sembra un blocco di ghiaccio.
– Sarà migliore così, perché nulla avrà perduto del suo sapore e del suo profumo. E voi, signor Fedoro, come trovate quel pasticcio di San Francisco?
– Non ne ho mai mangiato uno più gustoso, però mi si gelano i denti.
– Bisognava lasciarlo un po’ più esposto al sole. Non avevo pensato che voi non siete abituati a cibi così freddi. Macchinista, una buona bottiglia di gin e di whisky. Ci riscalderà un po’.
Il capitano, ch’era diventato d’una amabilità straordinaria, servì ai suoi ospiti dell’eccellente whisky, poi offrì delle sigarette e delle pipe.
– Ed ora, – disse – voglio soddisfare la vostra curiosità, perché suppongo che non mi lascerete troppo presto. Se dovessi deporvi qui, i cinesi non tarderebbero ad acciuffarvi ancora e più innanzi non vi converrebbe lasciarmi.
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