Emilio Salgari - I figli dell'aria
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- Название:I figli dell'aria
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– Una delle riserve dell’imperatore – rispose Fedoro. – Ne ha parecchie nella provincia di Pechino.
– Vi sono migliaia di cavalli.
– E tutti di proprietà imperiale.
– E che cosa ne fa l’Imperatore?
– Non lo saprei, perché non cavalca quasi mai. Tuttavia posso dirti che tiene a sua disposizione quasi centomila destrieri, scelti fra i migliori del suo sterminato impero.
– Tanti da morire prima di averli provati tutti, anche se dovesse diventare vecchio quanto gli antichi patriarchi.
– Sì, Rokoff.
– Vedo anche dei buoi.
– Ne possiede dodicimila.
– E delle pecore.
– Si dice che ne abbia duecentoquarantamila.
– Ecco un proprietario che invidio, Fedoro. E quella massa enorme che s’innalza presso le mura del parco? La si direbbe una campana.
– Fedele copia di quella di Pechino – disse il capitano, che si era silenziosamente accostato a loro. – Solamente che quella è in pietra, mentre quella della capitale è di bronzo finissimo.
– Io non ho mai potuto vederla, ma se quella è una copia, deve essere ben mostruosa.
– La più grande che esista al mondo, avendo tra una altezza di cinque metri, un diametro di quattro e mezzo e un peso di sessantamila chilogrammi. Se la bella Ko-hi non si fosse sacrificata, non so se i cinesi, per quanto abili, sarebbero riusciti a fonderla.
– Ko-hi! – esclamò Rokoff, guardando il capitano. – Chi era?
– Una delle più belle fanciulle dell’impero.
– E che cosa c’entra colla famosa campana?
– Signor Fedoro – disse il capitano, volgendosi verso il russo. – Non conoscete la storia di questa campana?
– No, signore.
Il capitano s’appoggiò al bordo, guardò per alcuni istanti Tschang-pin che ingrandiva a vista d’occhio, poi disse, quasi bruscamente:
– Narrasi che l’imperatore Yung-ko avesse incaricato il mandarino Kuang-yo di fondergli una campana che, per mole, non avesse l’eguale nel mondo. L’impresa era così ardua, che per due volte l’immenso torrente di bronzo fuso si riversò nello stampo senza riuscire a dare una campana perfetta. L’imperatore, sdegnato, concesse una terza prova, minacciando di morte lo sventurato mandarino nel caso che non fosse riuscito. Interrogato un astrologo, questi aveva predetto che la fusione sarebbe riuscita se assieme al bronzo si fosse mescolato il sangue d’una vergine. Kuang-yo aveva una figlia, giovane e bellissima. Apprendendo la profezia dell’astrologo e temendo l’ira dell’imperatore contro suo padre, la fanciulla si decise per l’orrendo sacrificio. Ed ecco che, quando il fiume di bronzo usciva come lava ardente dall’immensa fornace, la bella giovane si slancia, gridando: «Per mio padre!» Un soldato si precipitò su di lei per trattenerla, ma già il giovane corpo si era immerso nel metallo, non lasciando in mano dell’uomo, che voleva salvarla, che una delle sue piccole scarpe. Il mandarino, che aveva assistito al sacrificio della figlia, impazzì, ma la fusione riuscì pienamente, come aveva predetto l’astrologo. Si dice che il primo suono che diede la campana sembrò un colpo di scarpetta. Era la disgraziata giovane che reclamava ancora, nelle vibrazioni del bronzo, la sua piccola shieh. Macchinista alziamoci! Ecco le prime case di Tchang-pin ed ecco i primi colpi di fucile destinati a noi. Non sono cortesi questi abitanti!
LA GRANDE MURAGLIA
Tschang-pin, più che una città, è una grossa borgata situata quasi ad eguale distanza fra Pechino e la grande muraglia, destinata un tempo a coprire la capitale dalle frequenti invasioni dei bellicosi tartari.
La popolazione, vedendo avanzarsi ed ingrandire rapidamente quell’uccello mostruoso, che probabilmente scambiava per un drago fantastico, pronto a divorare uomini, donne e fanciulli e a vomitare fuoco sulle abitazioni, in un momento aveva disertato completamente le piazze e le vie mandando urla di terrore.
Solamente alcuni drappelli di soldati, costumi azzurri a galloni giallo-aranciati, l’Impero, si erano schierati sulla cima d’un vecchio bastione, aprendo un fuoco violentissimo contro gli aeronauti.
Udendo le palle sibilare, il capitano aveva dato ordine al macchinista di innalzarsi.
Due eliche, disposte orizzontalmente ai lati del fuso e che fino allora erano rimaste mascherate, coperte da tele impermeabili, si erano subito poste in movimento, raggiungendo ben presto una velocità talmente grande da non poterle quasi più scorgere.
Lo «Sparviero», aiutato anche potentemente dalle gigantesche ali che battevano affrettatamente, s’innalzò rapidamente raggiungendo in pochi minuti i millecinquecento metri.
Qualche palla si udiva ancora sibilare, segno evidente che quei manciù facevano fuoco con armi perfezionate, ma non erano più da temersi, perché l’alluminio del fuso era più che sufficiente per arrestarle.
– Vorrei dare una lezione a costoro – disse il capitano. – Se non temessi di uccidere delle persone inoffensive, farei vedere a quegli insolenti di quali armi formidabili noi disponiamo.
– Vorreste gettare loro addosso qualche bomba? – chiese Rokoff.
Il capitano non rispose. Guardava attentamente un bastione che si trovava al nord della città, difeso da una grossa torre quadrata, sormontata da un tetto doppio e che pareva in parte diroccata.
– Non vi deve essere nessuno là dentro, – disse – giacché è inservibile, la rovineremo del tutto. Macchinista: arresta la corsa.
– Avete anche della dinamite a bordo? – chiese Fedoro.
– Per che cosa farne? Non ho l’aria liquida a mia disposizione? Vale meglio del cotone fulminante e di tutti gli altri esplodenti finora inventati. Ora lo vedrete.
Il capitano scomparve nell’interno del fuso, passando per un piccolo boccaporto che si apriva dinanzi alla macchina e poco dopo risaliva tenendo in mano un tubo di ferro che da un parte era aperto e che si univa ad un filo attaccato a un rocchetto.
Lo «Sparviero», trovandosi ormai fuori di tiro, avendo attraversata tutta la cittadella, scendeva in quel momento con una certa rapidità, sorretto solamente dai suoi piani inclinati che funzionavano da paracadute.
Le ali e le eliche non battevano e non giravano più.
Il fuso calava proprio sopra la vecchia torre, con un largo ondulamento, facendo fuggire precipitosamente gli abitanti delle ultime case ed i contadini che lavoravano nelle ortaglie.
Quando giunse a soli cento metri, il capitano abbandonò il tubo, lasciando svolgere rapidamente il filo del rocchetto.
– Macchinista, innalziamoci – disse, quando vide il cilindro cadere fra le tegole del tetto superiore. – Non è prudente tenersi a così breve distanza. Lo «Sparviero» risaliva rapidamente, mentre il filo continuava a svolgersi. Raggiunse i cinquecento metri, poi i settecento, quindi i mille.
I soldati manciuri, avendolo veduto abbassarsi, si erano slanciati attraverso le vie della città, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile.
– Badate! – gridò il capitano a Rokoff e a Fedoro. – Tenetevi stretti. Do fuoco.
Quasi nel medesimo tempo una spaventosa detonazione rimbombava sotto di essi. Una fiamma immensa squarciò l’aria, lanciando in tutte le direzioni una tempesta di macigni e di rottami.
Lo «Sparviero», quantunque si trovasse a mille metri, fu violentemente spostato dalla spinta dell’aria e sbalzato innanzi, atterrando di colpo Fedoro e Rokoff, i quali non avevano avuto il tempo di aggrapparsi alla balaustrata. Urla terribili si erano alzate dalla città, urla d’angoscia e di terrore sfuggite da venti e forse da trentamila petti.
– Ebbene, dov’è la torre e dov’è andato a finire il bastione? – chiese il capitano con voce tranquilla. – Guardate, signor Rokoff, e ditemi se l’aria liquida non vale meglio della dinamite.
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