Emilio Salgari - I figli dell'aria
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- Название:I figli dell'aria
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Il cosacco, quantunque ancora stordito dal terribile scoppio, si era curvato sulla balaustrata. Che spaventevole disastro! La torre era scomparsa e al posto dove poco prima si elevava il bastione, si vedeva una buca immensa, come se cento mine fossero scoppiate insieme.
– Che cosa avete messo in quel tubo? – esclamò, guardando con terrore il capitano.
– Un semplice pezzo di lana immerso prima in una miscela d’aria liquida e di glicerina; null’altro.
– E avete ottenuto una simile esplosione!
– Vi sorprende?
– Voi allora potreste distruggere in pochi minuti una città intera.
– Lo credo – rispose il capitano, freddamente.
– Quale terribile strumento di guerra è il vostro «Sparviero»! Guai se tutte le nazioni dovessero possederne alcuni!
– Verrà il giorno che ne avranno; allora la guerra sarà finita per sempre, ammenoché non pensino a corazzare le città minacciate. Macchinista a tutta velocità! Andremo a dormire al di là della grande muraglia.
Lo «Sparviero» aveva ripreso lo slancio muovendo direttamente verso il nord, dove si vedevano delinearsi in lontananza alcune catene di montagne, assai frastagliate.
Il suolo s’innalzava gradatamente, interrotto da boschetti di giuggioli, che producono una specie di dattero, da cui i cinesi estraggono una bella tinta gialla; da lauri splendidissimi e da lunghe file di alberi del sevo, bellissimi vegetali dal fogliame verde chiaro e cosparse di mazzetti di bacche che sono ricoperte da una sostanza molto grassa dalla quale si estrae una specie di cera assai bianca, che produce una fiamma brillante e che surroga benissimo quella delle api.
Di quando in quando si vedevano anche delle piantagioni di tabacco, che riesce molto bene nella Cina settentrionale, di cotone che produce un filo splendido adoperato nella fabbricazione del famoso Nanking, e d’indaco verde.
Graziosi villaggi, seminascosti sul margine dei boschi o delle piantagioni, apparivano bruscamente ed allora era uno scompiglio fra i contadini.
Gli uomini urlavano, le donne piangevano, i ragazzi fuggivano disordinatamente, nascondendosi fra le piante, ma si rassicuravano presto, perché il terribile mostro alato continuava la sua corsa gareggiando vantaggiosamente cogli aironi che s’alzavano fra le risaie, coi beccaccini, colle oche selvatiche e cogli immensi stuoli di corvi gracchianti.
Qualche colpo di fucile, sempre inoffensivo, sparato dietro qualche folto cespuglio o presso qualche capanna salutava di quando in quando gli aeronauti. II maldestro bersagliere s’affrettava però a fuggire all’impazzata, per paura che il formidabile drago lo facesse a pezzi col suo rostro.
Alle sei di sera lo «Sparviero», che s’affrettava sempre, solcando lo spazio con una velocità di trenta miglia all’ora, si librava sopra la grande muraglia cinese.
Questa gigantesca opera, che per molti secoli fu creduta immaginaria, è una delle più colossali e anche delle più meravigliose, perché si estende ininterrottamente per ben seicento leghe, ossia per duemila miglia, attraverso deserti, a steppe, a montagne e a fiumi dal largo corso, quali l’Hoang-ho, svolgendosi attraverso le più selvagge regioni della Mongolia e del Kuku-noor.
Il primo imperatore che ne concepì l’idea fu Tsing-chi-hoang-ti, il secondo della dinastia dei Tsin.
Vedendo succedersi le invasioni dei tartari, i quali ogni anno mettevano a ferro e a fuoco i confini dell’Impero, tutto distruggendo sul loro passaggio, ordinò di chiudere i passi pei quali quei bellicosi predoni entravano in Cina.
I principi, che soffrivano assai da quelle scorrerie, ne imitarono l’esempio e la grande muraglia sorse, scorrendo attraverso regioni deserte e spingendosi perfino su monti quasi inaccessibili.
Vista dalla parte del territorio cinese, questa grande muraglia parrebbe una costruzione semplicissima di terra battuta, coronata da merlature e da torri; osservandola invece dal lato esterno si presenta solidissima, piantata su larghi basamenti di pietra che i secoli non hanno potuto ancora danneggiare.
In certi luoghi, reputati allora pericolosi, si innalza per venti e anche venticinque piedi ed è tanto larga che potrebbero avanzarvisi sei cavalli di fronte; ed in altri invece è molto più bassa. In tutta la sua lunghezza è guardata da massicce torri di forma quadrata e da fortezze nelle quali, ai tempi delle invasioni tartare, vi potevano stare perfino un milione di combattenti. Oggidì però, che la Mongolia è sottomessa all’impero, la muraglia non offre più la compattezza d’una volta. Vasti tratti sono stati lasciati a rovinare e i posti di guardia sono rari, eccettuato nel tratto settentrionale, destinato a coprire la provincia di Pechino.
– Non credevo che fosse ancora in così buono stato – disse il capitano, nel momento in cui lo «Sparviero» la superava, tenendosi a un’altezza di trecento metri. – Si vede che i cinesi erano maestri in fatto di costruzioni.
– E che torri poderose – disse Rokoff, il quale guardava con viva curiosità quelle solide bastionate.
– Ma che soldati paurosi – aggiunse Fedoro. – Vedo là alcune guardie che fuggono come se avessero le ali ai piedi. Queste non valgono i manciù di Tschang-pin.
Un gruppo di montagne, non troppo alfe e dai fianchi boscosi, si estendeva al di là della grande muraglia.
Il capitano le indicò al macchinista, dicendo:
– Andremo a riposarci lassù; nessuno verrà di certo a disturbarci.
– Prenderemo terra? – chiese Fedoro, meravigliato.
– E perché no? – rispose il capitano. – «La notte è stata creata per dormire» dicono i cinesi, e quando il sole tramonta tutti gli uccelli interrompono i loro voli e si cercano un rifugio. Noi, che siamo i figli dello «Sparviero», faremo altrettanto, signore. Il paese d’altronde mi sembra deserto e le guardie della muraglia non oseranno venirci a cercare.
Lo «Sparviero», aiutato dalle due eliche orizzontali, s’innalzava gradatamente, volando sopra folte boscaglie di pini, di querce e di lauri, e a profondi burroni in fondo ai quali si udivano scrosciare impetuosi torrenti.
Giunto sulla prima vetta, che appariva piana e ingombra solamente di cespugli assai bassi, che l’oscurità non permetteva bene di discernere, descrisse un ampio giro, poi cominciò ad abbassarsi lentamente, tenendo le immense ali alzate e lasciando solamente funzionare le eliche orizzontali.
Cinque minuti dopo il fuso si coricava dolcemente fra le piante, senza alcuna scossa.
– Ditemi se con un aerostato si sarebbe potuto discendere in questo modo – disse il capitano.
– No, signore – risposero a una voce Fedoro e Rokoff.
– Ciò vuol dire, dunque, che il mio «Sparviero» è superiore a tutti i palloni più o meno dirigibili e a tutte le macchine volanti finora inventate.
– Dobbiamo ammetterlo senza riserve – disse Rokoff, con entusiasmo.
– Verrete con me? Mi annoiavo di essere solo o quasi.
– Non vi lasceremo, se così vi piace.
– Macchinista, accendi il fuoco in mezzo a questi cespugli profumati e preparaci un buon pranzo. Abbiamo ancora alcune bottiglie di brodo di coda di canguro che abbiamo preparato in Australia e che ci daranno una zuppa eccellente.
– Del brodo che viene dall’Australia! – esclamò Fedoro.
– Gelato a quaranta gradi sotto zero – rispose il capitano, ridendo. – Sarà squisito, ve lo assicuro, quantunque messo nella mia ghiacciaia venticinque giorni or sono. Abbiamo anche dei pasticci, della carne di montone, del bue, dei puddings e anche dello champagne, che salterà ben alto. Ah! Sapete signori dove si è adagiato il mio «Sparviero»? In mezzo a una piantagione di tè! Signor Fedoro, voi sapete di certo prepararlo. Ne faremo una buona provvista, visto che i cinesi non vogliono lasciarci avvicinare.
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