Emilio Salgari - I figli dell'aria
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- Название:I figli dell'aria
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– Canaglie! – brontolò Rokoff. – Altro che l’Inquisizione di Spagna! Questi cinesi sono più feroci degli antropofagi.
Stavano per varcare la soglia, quando giunse ai loro orecchi un clamore che fece gelare il sangue ad entrambi.
Era un insieme di urla acute e strazianti, di gemiti, di rantoli, di singhiozzi a malapena soffocati e di ruggiti che parevano mandati da belve feroci.
– Qui si ammazza! – gridò Rokoff, guardando il magistrato ed i soldati, minacciosamente.
– Si tortura – rispose Fedoro.
– E noi lasceremo fare?
– Non spetta a noi intervenire.
– Io non posso tollerare…
– Devi resistere, Rokoff.
– Che non veda nulla, altrimenti mi scaglio contro questi bricconi e ne ammazzo quanti più ne posso.
Il magistrato, che aveva forse indovinato le idee bellicose del cosacco e che non desiderava vederlo ancora arrabbiato per paura di provare la sua forza, piegò a destra, inoltrandosi in un corridoio e si arrestò dinanzi ad una porta ferrata.
Un carceriere stava dinanzi, tenendo in mano una chiave enorme. Ad un cenno del magistrato aprì ed i due europei si sentirono bruscamente spingere innanzi. Rokoff stava per rivoltarsi, ma la porta fu subito chiusa.
Si trovavano in una cella lunga tre metri e larga appena due, rischiarata da un pertugio difeso da grosse sbarre di ferro e che pareva prospettasse su un cortile, essendo la luce fioca. L’unico mobile era un saccone, forse ripieno di foglie secche, che doveva servire da letto.
– Bell’alloggio! – esclamò Rokoff. – Nemmeno una coperta per difenderci dal freddo.
– E nemmeno uno sgabello – disse Fedoro. – Molto economi questi cinesi.
A un tratto si guardarono l’un l’altro con ansietà.
Avevano udito dei gemiti sordi e strazianti, che parevano provenire dal cortile.
– Si tortura anche presso di noi? – chiese Rokoff.
S’avvicinò al pertugio guardando al di fuori, e subito retrocesse, pallido come un cadavere.
– Guarda, Fedoro – disse con voce soffocata. – Che cosa fanno subire a quei miseri?… L’orrore mi agghiaccia il sangue.
GLI ORRORI DELLE CARCERI CINESI
Fedoro, quantunque provasse una sensazione non meno terrificante, spinto da una viva curiosità, si era approssimato al pertugio, il quale, trovandosi solamente a un metro e mezzo dal suolo, permetteva di vedere al di fuori senza dover arrampicarsi.
Non immetteva veramente su un cortile, bensì sotto una immensa tettoia, il cui pavimento era formato da un tavolato crivellato di buchi.
Cinque o sei esseri umani, che parevano già agonizzanti, cogli occhi schizzanti dalle orbite, pallidi come se tutto il sangue avesse abbandonato i loro corpi, si contorcevano disperatamente, mandando lugubri lamenti.
Non si vedevano che i loro tronchi, avendo le gambe, fino alle cosce nascoste entro il tavolato, in quei buchi che già Fedoro aveva notati.
Alcuni aguzzini seminudi, veri tipi di carnefici, si sforzavano di far inghiottire ai martirizzati un po’ di riso e qualche sorso di sciam-sciù, specie di acquavite estratta dal miglio.
– Ah! Infami! – esclamò Fedoro, rabbrividendo. – Quale spaventevole tortura!… Uccideteli piuttosto di tormentare così quei disgraziati.
– Che cosa stanno facendo quei mostri? – chiese Rokoff, additando gli aguzzini.
– Cercano di prolungare l’agonia alle loro vittime.
– E quale spaventevole supplizio subiscono quei miseri? Forse che stritolano lentamente le loro gambe?
– Peggio ancora, Rokoff. Io ho udito parlare di questa atroce tortura e non vi avevo creduto, tanto mi pareva inverosimile.
– Spiegati, Fedoro, sono un uomo di guerra.
– Sotto quell’assito esiste un fossato…
– E poi?
– Pullulante di topi, di vermi, d’insetti d’ogni specie.
– Ah! Comprendo! – esclamò Rokoff, con orrore. – Essi divorano lentamente le gambe di quei miseri.
– Sì, amico.
– Canaglie! Potevano inventare un supplizio più atroce! E non poter far nulla! Se fossi libero accopperei a calci quei carnefici! Questi cinesi hanno il cuore delle tigri! Andiamocene, Fedoro! Quei lamenti mi straziano l’anima!
– E dove andarcene? Sarei ben lieto di poter uscire; invece, come vedi, la porta è chiusa e solida.
– Ti dico che non voglio rimanere più qui, dovessi spezzarmi le ossa contro queste pareti.
Il bollente cosacco, senza attendere la risposta dell’amico, fidando d’altronde nella sua erculea forza, si scagliò come una catapulta contro la porta, facendola traballare.
– La scardineremo! – gridò. – E allora guai a chi vorrà chiudermi il passo.
Stava per slanciarsi una seconda volta, quando i due battenti s’aprirono violentemente, mostrando il magistrato seguito da quattro soldati armati di fucili colle baionette inastate.
Fedoro ebbe appena il tempo di gettarsi dinanzi all’amico, il quale, reso maggiormente furioso, stava per scagliarsi contro tutti, risoluto ad impegnare una lotta disperata.
– No, Rokoff – disse. – Sarebbero troppo contenti di ucciderci!
– Che cosa fate? – chiese il magistrato. – Ancora una ribellione? Questi europei cominciano a diventare troppo importuni.
– Levateci di qui – disse Fedoro. – Noi non siamo dei cinesi per assistere alle vostre barbarie. Nella vicina tettoia si tormenta e si uccide.
– Sì, dei ribelli che avevano cospirato contro l’impero – rispose il giudice. – Sono cose d’altronde che riguardano noi e non voi.
– Non possiamo resistere a simili infamie. Il giudice alzò le spalle, poi disse:
– Siete aspettati.
– Da chi? Da qualche membro dell’ambasciata? – chiese Fedoro, che aveva avuto un lampo di speranza.
– Non siamo così schiocchi da avvertire il vostro ambasciatore. È il tribunale che vi aspetta per giudicarvi. Abbiamo fretta di vendicare Sing-Sing.
– E di ucciderci, è vero? – chiese Fedoro, sdegnosamente.
– Sì, se siete colpevoli.
– Tu sai meglio di noi che noi non abbiamo commesso quell’abominevole delitto.
– Il tribunale giudicherà. Venite e non opponete resistenza perché i soldati hanno ricevuto l’ordine di fare fuoco su di voi.
– Andiamo – disse Fedoro a Rokoff, dopo avergli tradotto quanto aveva detto il giudice. – Vedremo se il tribunale oserà condannare degli europei senza l’intervento d’un membro dell’ambasciata russa.
Ritenendo inutile ogni protesta e troppo pericolosa una nuova resistenza, seguirono il giudice, attraversando parecchi androni quasi bui, dove non si vedevano altro che gabbie destinate ai prigionieri più ricalcitranti, ed entrarono in una saletta quadrata e bassa, ammobiliata con un lurido tavolo sopra cui si vedeva un tappeto ancor più lurido.
Due giudici, appartenenti probabilmente all’alta magistratura, avendo sui loro conici cappelli di feltro il bottone di corallo con fibbia d’oro, insegna dei mandarini di seconda classe, stavano seduti dinanzi al tavolo.
Erano due panciuti cinesi, dalle facce color del limone, con grandi occhiali di quarzo, vestiti di seta a enormi fiori gialli, rossi e azzurrini.
Presso di loro un cancelliere magro e sparuto, stava sciogliendo un bastoncino d’inchiostro di Cina e preparando dei pennelli, non conoscendo ancora i cinesi la penna o reputandola per lo meno inutile per le loro calligrafie veramente mostruose.
In un angolo invece si tenevano ritti due individui d’aspetto sinistro, che portavano alla cintura certi coltellacci da far rabbrividire. Erano due esecutori della giustizia, pronti a far subire ai condannati i più atroci tormenti, anche lo spaventoso ling-cih o taglio dei diecimila pezzi, riservato ai traditori e ai più pericolosi delinquenti.
Nel vederli, Fedoro aveva provato un lungo brivido.
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