Emilio Salgari - I figli dell'aria

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– Badate! I miei uomini sono armati e le vostre rivoltelle sono nelle nostre mani.

– Maledizione!

Rokoff, quantunque ben poco avesse compreso dalle grida e dal gesto di Fedoro, si era accorto che la cosa si aggravava e si era spinto addosso al magistrato, pronto ad afferrarlo pel collo e gettarlo fuori dalla porta o anche giù dalla finestra.

– Fedoro – disse inarcando le robustissime braccia. – Si tratta di menare le mani? Sono pronto a fare una marmellata di queste teste pelate.

– No, Rokoff, non aggraviamo la nostra posizione – disse il russo, fermandolo. – E poi non esiterebbero a far uso delle loro armi.

– Afferro un letto e glielo butto sulla testa.

– Ci sono i servi appostati nel corridoio.

– Ti ho veduto furibondo. Si guasta la faccenda?

– Ci hanno intimato l’arresto.

– Ah! Bricconi! E noi obbediremo?

– A che cosa servirebbe ribellarci? Sono i più forti e dobbiamo cedere per ora.

– E ci condurranno in prigione?

– Sì, Rokoff.

– E dopo?

– Cercheremo di persuadere i magistrati della nostra innocenza. Lasciamoli fare per ora e prendiamo tempo.

– Dunque? – chiese il magistrato, che aveva fatto avvicinare i suoi uomini.

– Siamo pronti a seguirvi, però pensate che noi siamo europei, che siamo innocenti e che qualunque violenza sarà vendicata dal nostro paese.

– Sta bene, intanto venite con noi. Vi sono delle portantine dinanzi alla porta del palazzo.

– Andiamo, Rokoff – disse Fedoro.

– Ah! Per le steppe del Don! Mi sentirei capace di rompere la testa a questi bricconi e di disarmarli tutti.

– No, amico, sarebbe peggio per noi.

– Andiamo allora in prigione.

Uscirono dalla stanza preceduti dal magistrato, il quale camminava tronfio e pettoruto, e seguiti da quattro agenti di polizia che avevano snudate le scimitarre, onde prevenire qualsiasi tentativo di ribellione.

Alla base della gradinata vi erano già due portantine guardate da altri quattro agenti e da otto robusti portatori.

I due europei furono fatti salire, si abbassarono le tende onde sottrarli alla vista dei curiosi, poi i facchini partirono a passo rapido, scortati dagli agenti di polizia.

Nessuno pareva che si fosse accorto dell’arresto dei due russi.

D’altronde era una cosa talmente comune il vedere in Pechino delle portantine, che i passanti non vi avevano fatto alcun caso, quantunque vi fossero intorno i poliziotti.

Dopo una lunga ora, i facchini si fermarono. Rokoff e Fedoro, che cominciavano a perdere la pazienza e ad averne abbastanza di quella prigionia, si trovarono sotto uno spazioso atrio, dove si vedevano gruppi di agenti, di soldati e di guardiani che chiacchieravano fumando o masticando semi di zucca.

– È questa la prigione? – chiese Rokoff.

– Lo suppongo – rispose Fedoro.

– Che ci chiudano ora in qualche segreta?

– O in gabbia invece?

– Vivaddio! Io in una gabbia? Non sono già una gallina!

– La vedremo!

– Non lasciarti trasportare dall’ira, Rokoff – disse Fedoro. – Forse non oseranno trattarci come delinquenti comuni, per paura dell’Ambasciata.

Due uomini seminudi, dai volti arcigni, colle code arrotolate intorno al capo, armati di certi coltellacci che pendevano snudati dalle loro cinture, si fecero innanzi, afferrando brutalmente i due europei.

Rokoff, sentendosi posare una mano sulla spalla, fece un salto indietro, gridando con voce minacciosa:

– Non toccatemi o vi spacco il cranio!

Anche Fedoro aveva respinto violentemente il suo carceriere o carnefice che fosse, prendendo una posa da pugilatore.

– Noi siamo europei – gridò. – Giù le mani!…

I due carcerieri si guardarono l’un l’altro, forse sorpresi di quell’inaspettata resistenza, poi piombarono sui due prigionieri, cercando di abbatterli. Avevano però calcolato male le loro forze. Rokoff, con una mossa altrettanto fulminea, si era gettato innanzi a Fedoro, poi con due ceffoni formidabili che risuonarono come due colpi di fucile, fece piroettare tre o quattro volte i due cinesi, finché caddero l’un sull’altro, sradicati da due pedate magistrali.

Urla furiose echeggiarono sotto l’atrio. Soldati, poliziotti e carcerieri si erano slanciati come un solo uomo verso i due europei, sguainando le scimitarre ed impugnando picche, coltellacci e rivoltelle.

– Siamo perduti! – esclamò Fedoro.

– Non ancora – rispose Rokoff, furibondo. – Possiamo accopparne degli altri prima di cadere.

Si abbassò rapidamente, raccolse uno dei caduti e lo alzò sopra la testa preparandosi a scaraventarlo come un proiettile fra l’orda urlante.

A quella nuova prova di vigore così straordinario, i cinesi si erano arrestati.

– Vi accoppo tutti, canaglie! – urlò Rokoff. – Indietro!

A quel fracasso però accorreva la guardia delle carceri, comandata da un ufficiale. Erano dodici soldati, armati di fucili a retrocarica, e a quanto pareva, non troppo facili a spaventarsi.

Ad un comando dell’ufficiale inastarono risolutamente le baionette e le puntarono verso Rokoff.

– Indietro! – tuonò il colosso.

L’ufficiale invece armò la rivoltella e lo prese di mira dicendogli

– Non opponete resistenza o comando il fuoco. Tale è l’ordine.

– Rokoff, bada – disse Fedoro. – Sono soldati e obbediranno.

– Meglio farci fucilare che lasciarci imprigionare.

– No, amico, noi riacquisteremo presto la libertà perché la nostra innocenza verrà riconosciuta. Siamo prudenti per ora.

Rokoff, quantunque si sentisse prendere da una voglia pazza di scaraventare il carceriere addosso ai soldati, comprese finalmente il pericolo e depose il povero diavolo, che pareva più morto che vivo.

Nel medesimo istante compariva il magistrato che li aveva fatti arrestare. —

– Una ribellione? – disse, aggrottando la fronte. – Volete aggravare la vostra posizione o farvi uccidere.

– Dite ai vostri uomini che siano meno brutali – rispose Fedoro. – Noi non siamo stati ancora condannati.

– Darò gli ordini opportuni perché vi rispettino, ma non opponete alcuna resistenza. Seguitemi.

– Obbediamo, Rokoff.

– Se tu mi avessi lasciato fare, avrei sgominato questi poltroni – rispose il cosacco. – Avevo cominciato così bene!

– E avremmo finito male.

– Ne dubito.

– Seguiamo il magistrato.

Scortati dai soldati, i quali non avevano ancora levato le baionette dai fucili, furono introdotti in un’ampia stanza dove si vedevano sospese quattro gabbie contenenti ciascuna tre teste umane che parevano appena decapitate, colando ancora il sangue dal collo.

Erano orribili a vedersi. Avevano i lineamenti alterati da un’angosciosa espressione di dolore, gli occhi smorti e sconvolti, la bocca aperta ed imbrattata da una schiuma sanguigna. Sotto ogni gabbia era appeso un cartello su cui stava scritto:

La giustizia ha punito il furto.

– Mille demoni! – esclamò Rokoff, stringendo le pugna. – È per spaventarci che ci hanno condotto qui?

– Sono gabbie che poi verrano esposte su qualche piazza, onde servano di esempio ai ladri – disse Fedoro. – Guarda altrove.

– Sì, perché mi sento il sangue ribollire.

Attraversato lo stanzone, passarono in un altro, le cui pareti erano coperte da strumenti di tortura.

Vi erano numerose kangue, specie di tavole che servono ad imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani, pesanti venti, trenta e persino cinquanta chilogrammi; canne di ogni lunghezza e d’ogni grossezza, destinate alla bastonatura; arpioni di ferro per infilzarvi i condannati a morte; pettini d’acciaio per straziarli, poi tavole con corde destinate a distendere fino alla rottura dei tendini, le mani ed i piedi dei pazienti.

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