Emilio Salgari - La crociera della Tuonante
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«Quella di Howe ormai dev’essersi rifugiata nei porti del nord,» rispose il secondo.
Che cosa mi consigliate, voi?» domandò Mac-Lellan.
«Io, sir , segnalerei alle navi americane di lasciar passare la squadra e di mettersi poi in caccia. Si dice che quelle navi siano rovinate, che vi siano a bordo più malati che combattenti; tuttavia io penso che cacciarsi là dentro con questa tempesta, la quale non ci permetterebbe di montare all’abbordaggio, sarebbe una grave imprudenza. E poi come scoprire la fregata con questa oscurità?»
«Vi sono i lampi.»
«Non insistete, sir William: lasciamola passare e perseguitiamola in coda. Tenteremo d’isolare la nave del Marchese e di catturarla. Le combinazioni non mancano.»
«Avete ragione, signor Howard,» rispose il Baronetto con un sospiro. «Testa di Pietra!» chiamò. «Segnala coi fanali alle navi americane di lasciar passare quelle inglesi e di mettersi poi in caccia.»
«Non si menano le mani dunque stanotte?»
«No, vecchio mio.»
«Peccato! Ero proprio in vena di montare all’abbordaggio.»
«Con questo pò pò di mare?» osservò il signor Howard.
«Oh, a noi Bretoni fonda alta non fa scappare il piede!»
«Segnala, Testa di Pietra,» comandò il Baronetto. «Fanali rossi, azzurri, gialli e bianchi a suo tempo.»
Scambiò alcune parole ancora col suo secondo, che era stato incaricato della sorveglianza dei timonieri, poi passò rapidamente in rassegna gli uomini della tolda. Tutti, malgrado le furiose scrollate che subiva la Tuonante, erano al loro posto: i gabbieri a riva, i fucilieri dietro le brande arrotolate sulle murate, gli uomini di manovra ai bracci delle vele, gli artiglieri dietro ai pezzi da caccia. E giù nelle batterie, tutto era pure pronto per impegnare la battaglia.
Testa di Pietra segnalò alle quattro navi americane l’ordine del Corsaro, poi raggiunse il suo pezzo favorito a babordo di prua, dove già Piccolo Flocco lo aspettava. La squadra inglese intanto, travolta dalla tempesta, s’avvicinava nel massimo disordine. Gli Americani l’avevano chiamata la flotta fantasma e non si erano ingannati. Era partita due mesi prima dai porti dell’Irlanda carica di diecimila mercenari che lord Dunmore sperava di condurre per tempo dinanzi a Boston e metterli a disposizione di lord Howe, ignorando ancora che la piazza era già caduta. Tempeste terribili l’avevano assalita in mezzo all’Atlantico, e giunta finalmente in America, ed appreso da alcune navi inglesi che Boston era stata presa, lord Dunmore si era rivolto verso la Virginia per tentarne la conquista. Ma una cattiva stella perseguitava quella disgraziata squadra. Ancoratasi alle foci dei fiumi, trasudanti il vomito prieto, ossia la febbre gialla, il terribile male era scoppiato a bordo, poi giunta ai forti virginiani, questi l’avevano respinta a colpi di fucile e di cannone. Priva di rifugio, piena di malati, coi viveri e le provviste di acqua guasti, sorpresa novamente dalle tempeste, aveva dovuto ricacciarsi nell’Atlantico senza una meta fissa.
Gli uomini morivano a centinaia; le navi deperivano di giorno in giorno; tutto mancava a quella disgraziata flotta destinata a fare una fine disastrosa, come vedremo in seguito.
Se il mare fosse stato tranquillo e il sole ancora alto, per la squadra dei corsari sarebbe stata la migliore occasione per precipitarsi su quella flotta disorganizzata e montata più da moribondi che da sani; ma con quella tempesta, sarebbe stata una imperdonabile imprudenza. Unica cosa da farsi era perseguitarla tenacemente, distruggendo o catturando le retroguardie formate da legni sottili per lo più.
«Corpo d’un campanile alto come la torre di Babele!» esclamò Testa di Pietra. «Ci rovinano addosso.»
«Chi? Babele?»
«Tu, Piccolo Flocco, hai avuto per maestro un asino.»
«Non ne ho mai avuti, camerata. Preferivo andare alla pesca dei granchi e delle ostriche. Bisognava aiutare la famiglia in qualche modo; e i pani, diceva mio nonno, non nascono sui banchi della scuola pei futuri marinai.»
Testa di Pietra si mise le mani sui fianchi, poi scoppiando in una risata, disse:
«Ed io preferivo d’andarmene alla pesca delle dorate e dei granchi. Nemmeno mio padre aveva fatto fortuna sul mare; era molto se si viveva e assai stentatamente. Tu devi sapere, monello, che nei nostri villaggi la miseria regna sovrana, perché il pesce non rende abbastanza… Corpo della torre di Babele!… Ci sorpassano.»
«Era un campanile quella torre?»
«Che ne so io?» rispose il mastro. «Mi ricordo che un giorno il vecchio parroco ci narrò la storia di una grandiosa torre che avrebbe dovuto toccare il cielo. Dove si trovi poi, và a cercarla tu, perché io non lo so davvero. Ma ora bastano le chiacchiere, Piccolo Flocco!… A me, artiglieri!»
Sei uomini si precipitarono sul suo pezzo favorito, armati di scoponi e muniti di mastelli d’acqua. La squadra inglese, travolta dall’uragano, sfilava in pieno disordine a meno di due miglia sottovento. L’oscurità era diventata così profonda in quel momento, che non si potevano scorgere altro che i fanali, i quali subivano di quando in quando dei balzi spaventevoli. Se le grosse ondate dell’Atlantico tribolavano la disgraziata squadra fantasma, facevano passare dei brutti momenti anche alla corvetta ed alle quattro navi americane, le quali, essendo meno maneggevoli, od avendo equipaggi non completi, faticavano assai a tenersi un pò unite. L’oceano rumoreggiava sinistramente. Mille ruggiti e mille fischi uscivano dagli avvallamenti delle pareti, ripercotendosi con intensità strana, impressionante.
La corvetta e le quattro navi americane lasciarono sfilare le navi inglesi; poi si misero in caccia, cercando di mantenersi in gruppo; caccia terribile ed estremamente pericolosa, poiché la squadra di lord Dunmore non contava meno di venti navi fra grosse e leggiere, ed un incontro era da temersi.
Verso le tre del mattino, alla notte profonda successe un’altra notte di fuoco. Lampi lividi spaccavano in due il cielo, scatenando mille fragori. Sugli alberi, sulle sartie, sui pennoni delle navi correvano novamente i fuochi di sant’Elmo, sbizzarrendosi come folletti. Di quando in quando palle grosse come aranci, tutte scintillanti, che giravano su se stesse con spaventosa rapidità, calavano dalle tempestose nubi, e dopo aver descritto delle strane evoluzioni, scoppiavano come vere bombe, spandendo un acuto odor di zolfo.
Sir William ed il signor Howard, approfittando di tutto quel lampeggiare, erano saliti sulla coffa della maestra, muniti di fortissimi canocchiali. Essi cercavano di scoprire la fregata, non essendo ancora ben sicuri che si trovasse fra le navi di lord Dunmore.
«Il Capitano vuol farsi fulminare da qualcuno di quegli aranci che Domeneddio si diverte a mandarci…» disse il Bretone.
«Sono bombe?» chiese Piccolo Flocco.
«Quasi; ma sono più pericolose, perché se una ti coglie, ti asfissia sul colpo.»
«Ci mancano le bombe degli Inglesi per completare la festa.»
«Hanno troppo da fare contro la bufera per occuparsi ora di noi. Nessun puntatore, con questo rollio, sarebbe capace di mandare a destinazione una palla.»
«Hai dimenticato il puntatore della fregata del Marchese che ci ha così bene disalberato?»
La fronte di Testa di Pietra a quel ricordo s’increspò.
«Dove l’Halifax ha scovato quell’artigliere? Se ce lo troveremo ancora dinanzi, altri malanni recherà alla corvetta.»
«Ma noi non resteremo colle mani ai fianchi,» disse il giovane gabbiere. «Pezzi grossi ne abbiamo anche noi, con palle incatenate, ed un buon puntatore non ci manca.»
«Chi è?»
«Tu.»
Il Bretone scrollò la testa e disse con un sospiro:
«Invecchio, Piccolo Flocco!»
«Ma che? quelli di Batz sono giovani anche a cent’anni! Scommetto che quel tuo famoso nonno sparava…»
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