Michele Amari - La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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Nei due anni appresso, sostando la grossa guerra con Napoli, male si osservò la tregua; com’eran gli uomini sempre con le armi alle mani, e avvezzi ad offendersi e rubacchiarsi a vicenda; talchè or per cupidigia, ora per rappresaglia, ora per non potersi raffrenare gli almugaveri, continuarono scambievolmente le prede in mare, gli assalti in terra 54, a quanto pare con maggiore avvantaggio dalla parte dei nostri, che fean bottega de’ prigioni 55, e per mare talvolta minacciarono 56, talvolta consumarono importanti fazioni 57; alle quali l’ammiraglio preparossi il pretesto, lagnandosi una fiata d’infrazione a’ patti, e aggiugnendo: non parlare per ambagi; ciò che avea in cuore nol mentiva col labbro; sapessero ch’egli osserverebbe la tregua al modo stesso che feano i nemici 58. In questo tempo le armi siciliane mostraronsi ancora con gloria in levante. Andò Loria con la flotta a riportare il Margano principe d’Arabi, che in Sicilia promettea riscatto; e appena sbarcato in terra maomettana, cavalcando con uno stuol de’ nostri a Tolomitta, l’avviluppò d’insidie; ma essi con incredibili prove strigatisi da’ barbari, e sforzato il re a noverar la moneta, si tornavano con quella a Messina. Nel medesimo tempo venuto a Messina Giovanni di Greilly, quel siniscalco di Eduardo che adoprò sì leale con re Pietro a Bordeaux, ed or s’era partito d’Acri per sollecitar aiuti della Chiesa, Giacomo, raccoltolo con assai onore, gli die’ sette galee siciliane che in que’ luoghi combattessero per la fede 59. Più notevoli furono in questo tempo le pratiche della pace.

Perchè vennero da chi solo potea portarle a compimento; parendo papa Niccolò divenuto a un tratto più mite, per paura delle armi del Soldano. Il Neocastro non la dà a cagione sì piana. Narra, che non guari dopo bandita la tregua, un Geronimo, decrepito romito dell’Etna, si traesse dinanzi al sommo pontefice, a rivelare ammonimenti del Cielo a pro di Sicilia; sì che il piegò con la forza delle apostoliche parole, che gravissime spiccano su le pagine del siciliano istorico. Niccolò, qual che si fosse il perchè, mandava al re di Sicilia un frate catalano, Ramondo per nome, a fargli sperar propizia la santa sede s’ei menasse la siciliana flotta al soccorso d’Acri: e Giacomo rispondeagli, che, riconosciuto re di Sicilia, con tregua per cinque anni e aiuto di danari, passerebbe in Terrasanta con trecento cavalli, diecimila pedoni e trenta galee; promettendo Loria ch’a sue spese aggiugnerebbevi (sì alto era salito!) dieci galee, cento cavalli, duemila fanti. Ma in altro modo questa novella benignità del papa fu interpetrata in Sicilia. Pandolfo di Falcone e altri Siciliani pratichi delle cose di stato, sursero a distogliere il re; tornandogli a mente che simil laccio tese papa Innocenzo all’imperator Federigo; e che s’ei portasse le siciliane armi in levante, darebbe inerme l’isola in man dei nimici. Così fatto accorto Giacomo, inviò al papa Giovanni di Procida, uom da stare a petto a que’ di Roma: il quale dando oneste cagioni del mutato proponimento, conchiuse, che si differisse l’impresa di Terrasanta infino alla ferma pace tra la Chiesa e Giacomo; ma il papa volle rimettere il negozio alla pace generale da trattarsi in Provenza, tra Aragona, Francia, Chiesa, Napoli, Maiorca, e Carlo di Valois, mediante l’inglese Eduardo 60; procacciandola con estrema attività, per ottener la liberazione de’ figliuoli, Carlo lo Zoppo, che fermata ch’ebbe la tregua in Gaeta, lasciò l’insultato reame, per compier con le negoziazioni ciò che non avea saputo con la spada 61, e dimorò lungo tempo in Francia come un infelice importuno, mercanteggiando con Carlo di Valois, pregando Filippo il Bello, e spesso domandandogli danari in prestito 62.

E per tal modo tutte le speranze si dileguarono; sendo finita questa generai pace d’oltremonti là dove avean accennato i trattati di Oleron e di Campofranco. Perchè la corte dì Roma, o non potendo beffarsi di Giacomo, o tornando a pensare alle cose d’Italia più che della Soria, non die’ ascolto al ripiego di Giacomo, offrente pagarle tributo per la Sicilia 63: e rinnovò gli appresti di guerra contro Aragona 64: ove le corti, mal soffrendo sempre il pericol proprio per l’utile altrui, di settembre dell’ottantanove avean mandato ambasciadori in Sicilia, che praticasser anco con Procida, Loria, Alamanno e Calcerando, a’ cui consigli Giacomo si reggea, e chiedesser venti galee siciliane in Catalogna, poichè per ragion della Sicilia si dovea quel reame rituffare ne’ mali della guerra 65. A’ nuovi romori dunque, nacquero in Aragona discordie civili tra le corti e ’l re; le corti, inibita ad Alfonso ogni pratica dassè solo intorno la pace, voller che la si trattasse per dodici commissari della nazione 66: e vinto Alfonso da necessità e stanchezza, ruppesi il debil filo al quale teneano gì’interessi di Giacomo. Bandito un congresso 67in Provenza, al quale al papa mandava i due cardinali Gherardo da Parma e Benedetto Gaetani 68, perchè tra la riputazione della porpora e la capacità degli uomini, ogni cosa andasse a posta loro, alla prima si disse a Giacomo ch’inviasse suoi oratori, o si fece sperare d’ammetterli; ma quand’ei spacciò di giugno milledugentonovanta Gilberto di Castelletto e Bertrando de Cannelli, il re d’Aragona rispondea: si stessero; non gli sturbasser la pace sua; ferma quella, più agevol sarebbe a Giacomo 69. Intanto i cardinali legati a diciannove agosto del novanta avean fermato un patto con Carlo II e Filippo il Bello, che fatta la pace con Aragona, ma persistendo la Sicilia, il re di Francia si godesse sempre la decima accordatagli per tre anni, e l’avesse per altri anni due con pagare al papa per le spese della guerra di Sicilia quattrocento mila lire tornesi, che si ridurrebbero a trecento mila racquistandosi l’isola entro un anno e due mesi. Non conchiusa la pace con Alfonso, il re di Francia darebbe dugento mila lire solamente; sarebbe aiutato dal papa contro l’Aragona, e anco da Carlo II, se questi riavesse la Sicilia nella quale dovea principiarsi la guerra 70. E’ manifesto così qual pace serbassero a Giacomo: nè allora l’ignorava alcuno. Andò al congresso re Carlo co’ dodici commissari di re Alfonso e delle corti d’Aragona, presenti i due legati del papa, e quattro d’Inghilterra. Adunaronsi in Tarascon; e segnarono il trattato a Brignolles, il diciannove febbraio milledugentonovantuno.

Nel quale umiliossi Alfonso a promettere di chieder perdono al papa, dapprima per legati, indi entro dieci mesi anco in persona; di guerreggiar in Terrasanta; di rendere a Carlo gli statichi, la moneta, i prigioni di guerra; di richiamar tutti i sudditi suoi di Sicilia, e togliere a Giacomo ogni aiuto. S’ingaggiò Carlo in cambio a procacciar l’assentimento di Filippo il Bello e del Valois: vedrebbe la Chiesa di rivocar la concessione del reame a costui, e ribenedir l’Aragona. Lasciossi luogo ad entrar tosto nella pace al re di Maiorca, e a quel di Castiglia, se si potesse 71. Il dì appresso i due cardinali intimavan questo trattato a Francia e alla corte di Roma 72. Tanto si legge ne’ diplomi. Il Neocastro a queste condizioni aggiugne: riconosciuta l’alta signoria d’Alfonso su Maiorca; fermato censo annuo di trenta once d’oro, che pagasse Aragona alla corte di Roma; stabilito con quali forze dovesse andar Alfonso in Roma e indi in Terrasanta, e in Sicilia a procacciar anche con le armi la sommissione di Giacomo. Fu tolto allora ogni ostacolo al matrimonio d’Alfonso con la figliuola d’Eduardo d’Inghilterra: e un altro poco appresso ne strinse re Carlo per ottener la rinunzia del Valois, dando a Costui in isposa la sua figliuola Margherita, con le contee d’Angiò e Maine 73.

Non ebbe tempo Alfonso a raccoglier di questa pace altro che il biasimo. Accrebbelo con fornir munizioni navali a Genova, per l’armamento di sessanta galee agli stipendi di re Carlo; che ripigliato animo alla impresa di Sicilia, di marzo andò in Genova, co’ due cardinali legati, a invitarvi que’ mercatanti guerrieri 74. Ma quando più lieto si dipingea l’avvenire ad Alfonso, robusto e sano a ventisette anni, assicuratosi il reame, vicine le nozze con la bella figliuola d’Eduardo, una malattia di tre giorni l’uccise, il diciotto giugno del medesimo anno, pria che si fosse mandata ad effetto alcuna parte del trattato. Per non essere di lui figliuoli, ricadea la corona a Giacomo re di Sicilia. Talchè a un tratto dissipò la fortuna le meditazioni di chi avean intrecciato sì sottilmente la pace; e arrise alla Sicilia, per apparecchiarle più torbidi tempi, e poi maggior gloria. Giacomo, al primo avviso, convocato in fretta un parlamento a Messina, con molto affetto parlò; e, come suolsi sempre partendo, giurò eterno l’affetto, accomiatandosi da’ popoli in Messina, Palermo e Trapani; donde entrò in nave il dodici luglio. Lasciò luogotenente il fratel suo Federigo; una forte armata; assai acquisti in Calabria; e chiara fama di sè. Perchè negli otto anni che resse di presenza lo stato, dapprima vicario, poi re, s’ei fu in qualche incontro ingannatore e crudele, ne fece ammenda con la benignità nell’universale, i larghi ordini delle leggi, la virtù di guerra, le avventurate imprese contro i nimici della Sicilia. Oltre a ciò, sotto il suo governo ristoravasi la nazione a floridità e ricchezza; alleviata dalle tasse, e dalla tirannide che tutto soffoca in disperato letargo; francheggiata da sicurezza di buone leggi, e dalla virtù della rivoluzione che animava ogni parte del viver civile. Per le quali cagioni, accompagnavano amorosamente i Siciliani coi lor voti quel principe, che pochi anni appresso dovea meritare le più disperate maledizioni 75.

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