Michele Amari - La guerra del Vespro Siciliano vol. 2

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Quivi un miserando caso attristò que’ medesimi animi infelloniti nelle ostinate lotte dell’assalto e della difesa. Era il castello presso ad arrendersi per diffalta d’acqua, quando una inaspettata speranza di pioggia tanto il rinfrancò, che tornando alle offese, fu tolta di mira coi mangani la tenda stessa di Giacomo. L’ammiraglio a questo, rompendo ai soliti trapassi d’ira cieca e spietata, fa drizzare co’ remi un palco dinanzi la tenda; fa legarvi i due figliuoli, avvertito e veggente Ruggiero. Il seppe la madre, e con dolor disperato, corse alle mura, pregò i suoi, pregò i nemici, scongiurò ora il re di Sicilia, ora il feroce consorte: e i combattenti arrestavan la mano da’ colpi, lacrimosi guardando tutti Ruggier San Gineto. Qui altri dice ch’ei fe’ star la macchina, altri che con atroce virtù comandava di trar sempre. In questa tragica tensione d’umani affetti, s’era chiuso d’oscuri nugoli il cielo; disserravasi un turbine; il fremito de’ venti, il polverio confondeano ogni cosa; quando tra le ondate della caligine si vide il palco andare giù in un fascio, non si sa bene se per tiro del castello o folata di vento. Al maggior de’ giovanetti entrò nella tempia un palo aguzzo che l’uccise. Giacomo rendea ai miseri genitori il cadavere con onor di pompa funerale, rendea libero l’altro figliuolo, e scioglieva anco l’assedio. Perchè vedendo per quella medesima tempesta rifornito d’acqua il castello, e la propria sua flotta campata appena da grave rischio su quelle costiere; e tardandogli di mandare ad effetto una pratica con cittadini di Gaeta, rientrò in mare con tutte le sue forze per seguire i disegni della guerra 45.

Toccò Scalea, Castell’Abate, Capri e Procida che per lui si teneano; soprastette in Ischia; e smontò l’ultimo di giugno a Gaeta, agevolmente messo in fuga il conte d’Avellino, che in quello incontro ricordossi troppo vivamente la passata sua prigionia in Sicilia. Mala fazione che avea chiamato Giacomo, presumendo assai delle proprie forze 46, sparatissima si trovò in quel tempo, in cui re Carlo II con tutti gli aiuti di Roma, rientrato nei regno per Solmone e Venafro, avviavasi a Napoli 47. Largivagli il papa le decime ecclestastiche per tre anni 48; bandiva per tutta Italia la croce, seguita in frotte da Guelfi di Lombardia e di Toscana, da Abbruzzesi, Campani e altri regnicoli, oltre le milizie feudali chiamate al servigio. Sotto il vessillo della croce e i comandi del legato pontificio, veniano i Saraceni di Lucera. Vide con gli occhi propri il Neocastro, donne portar armi tra quelle masnade, menarsi a guinzaglio grassi mastini per isfamarli di scomunicata siciliana carne. Questo esercito smisurato, sì diverso e bizzarro, capitanava il conte d’Artois 49, in cambio del non guerriero monarca, inteso in Napoli a chiamar parlamento 50, e con arti più miti tentare i Siciliani, promettendo perdono, e riforme, e che Francesi non manderebbe a governare la Sicilia, ma un legato del papa 51.

La fama dunque di tai forze, precorrendole a Gaeta, voltò tutti gli animi a parte angioina; tantochè gl’indettati con Giacomo furono i primi a gridare contr’esso. Però di ripari e provvedigioni si munì bene la terra; il re, tentate indarno le pratiche, dopo alquanti dì si pose a sforzarla: accampatosi sur un poggio egli coi cavalli e il fior delle genti; e gli altri pedoni attendò al piano, trinceati ambo i campi, antiveggendosi il pericolo. Con assalti forte dati e forte respinti, e scambievole trar delle macchine gran pezza passò quest’assedio: occuparono e poser a sacco i nostri Mola di Gaeta; poi infino al Garigliano da un lato, a Fondi dall’altro, corser guastando e saccheggiando i contadi di Nola, Maranola, e Tragetto; ma Gaeta si danneggiava aspramente e non espugnavasi. Indi a poco sopravvenendo l’oste crociata, corse in frotte a stormeggiare i siciliani alloggiamenti; da’ quali ributtata con molto sangue, anch’essa a picciol tratto si accampò. Gaeta dunque tra la flotta e le genti nostre, queste tra la città e il nimico alloggiamento assediati stavano, percotendosi coi tiri a vicenda. S’ebbe maggior travaglio alla campagna, scaramucciando i nostri ogni dì or coi Saraceni, or coi Toscani crociati, or co’ Francesi; e spesso i mastini lasciati contro i nostri, sfamaronsi delle membra di chi li avea portato ausiliari alla guerra. Leucio, sì glorioso ne’ fatti dell’ottantadue, e Bonfiglio, messinesi, segnalavansi in questi affronti. Matteo di Termini in più grossa battaglia cominciata un dì, sfracellò coi tiri delle macchine la falange serrata de’ nimici. Non parea vero che diecimila uomini tenesser sì saldo tra una città e uno esercito fortissimi. All’oste siciliana si volgeano per la sua virtù le menti, i cuori, fin de’ nemici; piena di maraviglia e di perplessità, tutta l’Italia aspettava ormai la catastrofe 52. Ma intanto la violazione de’ patti d’Oleron e di Campofranco, comandata, com’aperto vedeasi, da Roma, incresceva a Eduardo; e a confonder Niccolò venner anco di levante lagrimevolissimi avvisi: scacciati di Soria i cristiani; presa Tripoli dal Soldano con orribili atti di crudeltà; strette d’assedio in Acri le reliquie de’ fedeli che imploravan soccorso. Però Eduardo, non più sopportando che si spiegasse la croce contro cristiani mentre i maumettisti la calpestavano in Asia, mandò al papa per Odone di Grandisson una ambasciata acerba: che cessasse tanto scandalo; o alfin si aspettasse l’ira di tutti i principi cristiani. Umiliossi Niccolò a tal forza di verità. Spacciò, insieme con l’inglese, un messaggio a re Carlo, portatosi il diciotto agosto al campo a Gaeta; il quale non era uom da ricusare la tante volte promessa cessazione dalle armi. Aggiunte tai pratiche alla difficoltà, che vedeasi d’ambo i lati durissima, a ben finir questa fazione, fecer tosto fermare la tregua.

Vanno dall’un campo all’altro oratori a parlamentar di pace; nel quale incontro scrive il Neocastro, che i cavalieri francesi entrati nelle tende del sicilian re, vedendole sfolgorar di spade, lance e tutti ornamenti d’arme, e per ogni luogo le ben acconce macchine, e gli alloggiamenti trinceati con sapienza di guerra, ricordasser con rammarico le stanze del secondo lor Carlo, come cella di chierico, piene di libri profetici, musaici, dalmatiche in luogo di corazze. Quanto all’importanza del trattato, battendo gli angioini oratori su lor fola della cessione dell’isola, Loria al cospetto di re Giacomo rispondea brusco: non lascerebbe la Sicilia, se tutto il mondo venisse crociato sovr’essa. Indi del mese d’agosto milledugentottantanove si fermò tra Sicilia e Napoli, in luogo della pace che non si poteva, una tregua infino al dì d’Ognissanti del novantuno, con questi patti: che si posasser le armi sì in mare e sì in terra, fuorchè nelle Calabrie e presso il Castell’Abate e in qualche altro luogo: che potesse Giacomo per mare vittovagliare e munire tutte le terre occupate da esso; non portar l’armata innanzi a quelle ch’ubbidivano a Carlo: che nelle infrazioni della tregua, si provasse il danno dinanzi a’ magistrati della parte offesa, o a Giovanni di Monforte per re Carlo, a Ruggier Loria per Giacomo; e tra dì quaranta il principe dell’offensore ne facesse risarcimento. Notevol è tra questi articoli, e mostra con quali indisciplinate masnade la Sicilia riportava tante vittorie, il patto che restasser fuori della tregua gli almugaveri, de’ quali Giacomo non si facea mallevadore; ma ben promettea non favorirli in loro fazioni, e non mandarvi uficiali, nè mercenari suoi. Di tal tregua presero grandissimo sdegno i baroni di re Carlo, che sentendosi dieci contr’uno, speravan rifarsi una volta delle sconfitte toccate nella siciliana guerra. Secondo i patti, primo levò il campo re Carlo, tre dì appresso Giacomo; il quale imbarcatosi con tutte le genti il dì penultimo d’agosto, prese il porto di Messina a sette settembre, dopo aver corso a capo Palinuro grande fortuna di mare. Ricantando le bravate dei baroni di Carlo, alcuno scrittore di quel reame, poi sentenziava che seguitando le offese, sarebbe stata senza dubbio inghiottita la picciol’oste di Sicilia; ma il guelfo Villani accetta esser tornato utilissimo quell’accordo al regno di Puglia; e Carlo stesso, men vantatore de’ suoi, di lì a pochi mesi non gloriavasi d’altro che dell’aver Giacomo tentato senza pro la espugnazione di Gaeta. Lo stesso può argomentarsi dalla fermezza de’ capitani di Sicilia nel trattare; dall’essere rimaso Giacomo signore della più parte delle Calabrie, oltre le terre occupate qua e là per altre province; e dagli altri onorevoli patti che fermaronsi per, termine di questa certo audacissima impresa sulla estremità opposta del territorio nemico 53.

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