Vittorio Bersezio - La plebe, parte I
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Il garzone non rispose e mise innanzi all'avventore. Ma questi s'accorse che nell'apparecchiargli in tavola, le mani di Meo tremavano, e guardatolo in faccia, gli vide i segni del turbamento, da cui non s'era ancora compiutamente riavuto.
– Che cos'hai. Meo, che la tua faccia par quella d'un mascherone da fontana?
Meo crollò la testa, soffiò forte, e rispose in fretta a parole mozzicate:
– Nulla, non ho nulla.
E fece per andarsene tosto: ma Barnaba lo trattenne.
– Sta qui meco un momento, che diavolo!.. Tu hai dei dispiaceri, povero tambellone, non è vero? Te lo leggo chiaro su quella luna piena che ti serve da faccia.
Meo sospirò a suo modo, ma non disse verbo.
– Vuoi che te lo dica il tuo segreto? Tu sei innamorato morto.
Il babbuino si torse della persona con mossa di vergognoso, divenne rosso in volto e fece nello stesso tempo il più scemo sorriso.
– Quella birbona di Maddalena, eh?
– Ah sì! Quella birbona! Non potè a meno di ripetere Meo con un grosso sospiro.
– La è una civettuola che si lascia amoreggiare dal terzo e dal quarto.
– Ah si! Tornò ad esclamare Meo con un altro sospiro.
– Ed inoltre fra tutti i suoi galanti ce ne avrà qualcheduno di preferito.
Altro sospirone ed altra esclamazione affermativa di Meo.
– E questo preferito non sei tu?
– Non son io: ripetè dolentemente il garzone chinando la testa, con un sospiro più desolato degli altri.
– Ma sai tu almeno questo fortunato mortale chi sia?
Il giovane alzò vivamente la testa, ed un lampo balenò nei suoi occhi da stupido.
– Oh! se lo so: diss'egli serrando i pugni.
Barnaba si sporse di più verso il garzone e soggiunse sotto voce:
– Si dice che sia un cotale che viene qui soltanto di soppiatto: un bel giovane che fa il signore…
Meo digrignava i denti e seguitava a far girare le pallottole di vetro dei suoi occhi, come fanno quelle certe figure dipinte su alcuni dei pendoli a contrappesi.
Il poliziotto s'accostò ancora maggiormente al giovane, e continuò con voce più sommessa ancora ma con accento autorevolmente affermativo, fissando bene in volto l'imbecille:
– E questo tale è conosciuto qui col nomignolo di medichino .
A questa parola il povero Meo tutto si riscosse e si trasse indietro vivamente spaventato, come alla vista improvvisa d'una voragine che gli si aprisse sotto i piedi.
– Non so nulla: esclamò egli; non ho detto nulla; non mi fate dir nulla.
Barnaba lo prese ad un braccio e lo tirò presso di sè.
– Ah, ah! Disse. Ho posto il dito sulla piaga io. Vien qui, tambellone; e non ti pentirai d'aver parlato meco; ne avrai anzi sotto ogni riguardo vantaggio. Quel tal medichino , adunque…
Ma in quella l'uscio a vetri s'aprì, e comparvero, prima il naso enorme, poi la faccia cadaverica di mastro Pelone.
– Eh! marmotta: disse questi parlando a Meo. Si ha bisogno di te, e tu pianti le radici dappertutto dove ti fermi.
Barnaba lasciò andare tostamente il braccio di Meo, il quale s'affrettò a partire. Il poliziotto mirava con una certa intentività acuta e maliziosa il bettoliere ed il garzone.
– Comandate qualche cosa? Chiese Pelone a Barnaba, avanzandosi verso il suo desco.
– No, non mi occorre più nulla: rispose Barnaba. Va pure alle tue faccende anche tu, che io mangerò tranquillamente questa roba senz'altro.
L'oste che pareva desiderar mediocremente soltanto di rimanere un'altra volta solo coll'agente della polizia, uscì sulle peste di Meo, e Barnaba rimase solo.
Allora questi si alzò, e con passo leggerissimo corse all'uscio a vetri a chiarirsi se di là ci fosse chi potesse vedere entro la stanza: tirò bene le tendoline ai cristalli, e poi si diede ad esaminare minutamente le pareti della camera, intorno alle quali correva ad altezza d'uomo una impiallacciatura di legno volgare di pioppo mal verniciato.
Guardò, toccò, battè riguardosamente qua e colà colla nocca delle dita, e ad un punto si fermò più lungamente che altrove. Gli parve poi udire l'appressarsi di qualcheduno, e più lesto ed agile che un gatto, fu al suo posto dove riprese a mangiare così tranquillo come se non si fosse mai mosso.
– Va bene: diceva egli intanto fra sè. I miei sospetti s'afforzano e spero diventeranno certezze. Andrò a far strabiliare il commissario… E ad ogni modo quell'imbecille di Meo sarà uno stromento che saputo maneggiare finirà per aprirci il segreto di ogni cosa.
CAPITOLO VIII
Maurilio, uscito dalla stanza a vetri dopo il colloquio con Gian-Luigi, venne sollecito al desco a cui aveva lasciato il ragazzo trovato per la strada. Questi, dopo aver ben mangiato e ben bevuto, aveva appoggiate le sue piccole braccia sulla tavola, messovi su la sua piccola testa, e s'era saporitamente addormentato, a dispetto di tutto il baccano che veniva facendosi intorno a lui entro al denso aere di quella stanza, baccano che non era punto sminuito, ma piuttosto era venuto aumentandosi.
Maurilio stette un istante a contemplare quel ragazzo. Ei dormiva così tranquillamente, con tale una sembianza di benessere, che il giovane ebbe un momento d'esitazione prima di svegliarlo per condurlo via. Ma poi si decise a riscuoterlo, e già tendeva una mano per mettergliela sulla spalla, quando una nuova scena sopravvenne che ne lo fece sostare, tutta a sè chiamando la di lui attenzione.
Andrea e Marcaccio erano ancora a quel medesimo posto, in quella medesima attitudine, tornati ai medesimi discorsi, se non che l'ebrietà in ambidue era maggiore.
Marcaccio faceva allusione a quel furto vistoso di cui udimmo un cenno sulle labbra di Barnaba, commesso a danno del signor Bancone, uno dei principali banchieri della città; e con argomento che un maestro di logica avrebbe chiamato ad hominem , diceva al suo compagno che se fra quei capi di vaglia i quali avevano fatto il colpo si fossero per fortuna trovati ancor essi, avrebbero ora le tasche piene di denaro, e potrebbero bere tutta la canova di mastro Pelone; alle quali parole Andrea, che il lume della ragione omai ce l'aveva perduto tutto, rispondeva; sempre più balbuziente, con dei sicuro frammisti a voci inarticolate ed accompagnati da pugni sulla tavola.
Quegli altri dalle triste fisionomie, usciti fuor della camera vicina con Gian-Luigi, si erano sparsi qua e colà per la bettolaccia, alcuni rimanendo a gruppi fra di loro, altri ad uno, a due andandosi a frammischiare alle brigatelle che già erano formate intorno ai deschi, e susurrando a bassa voce nell'orecchio di qualcuno, con certe arie misteriose che ti davan sembianza di gente che comunicasse qualche parola d'ordine o qualche segreta istruzione.
In quella una donna miserissimamente vestita aprì l'uscio d'ingresso e stette sulla soglia peritandosi d'entrare, quasi timorosa, lanciando tutto intorno nell'aer crasso della bettola uno sguardo inquietamente ricercatore.
Alcuni, cui dava fastidio l'aria fresca che s'introduceva per la porta semiaperta, volsero a quella parte il capo e gridarono di mala grazia:
– Ehi là! Chiudete quell'uscio, che vi colga un accidente! Volete darci una scarmana che ci mandi a far terra per le pignatte?
Uno di loro riconobbe la donna chi fosse.
– Ah ah! siete voi, Paolina?.. La solita storia eh?.. Venite a cercare vostro marito, ci scommetto… Entrate, Paolina, che diavolo! Entrate e chiudete quel battente in vostra buon'ora… Vostro marito è laggiù.
Paolina entrò del tutto e lasciò richiudersi dietro sè la porta. Era una donna di età ancora giovane, ma dai patimenti affatto stremata. Il viso color della cera, le labbra con livido pallore, livide le occhiaie infossate, gli occhi ardenti dalla febbre. Aveva intorno alle membra macilente una misera ciopperella di panno di cotone in più luoghi e con istoffe d'altri colori rappezzata; copriva il capo con un fazzoletto sbiadito, logoro, sfilacciato, ora tutto inumidito dal nevischio che il tempo freddoloso pareva stacciare traverso la nebbia nelle strade, e di sotto a questo fazzoletto le uscivano scarmigliate alcune ciocche di capelli nerissimi, fra cui cominciavano immaturamente ad essere frequenti i fili d'argento. Il dorso e il petto avea ricoperti da un pezzo qualunque di stoffa che le serviva da scialle.
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