Vittorio Bersezio - La testa della vipera

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La testa della vipera

I

Erano già le tre del mattino, e i giuocatori, sempre più accaniti intorno al tappeto verde, chiedevano nuovi mazzi di carte ai servitori sonnacchiosi del club .

Uno di questi aprì l'uscio di quel salotto dall'afa soffocante, s'inoltrò fino al tavolo dei giuocatori, e toccò discretamente sopra la spalla un uomo di circa quarant'anni, che, anche da seduto, appariva alto di statura, con un testone tanto fatto, irto di capelli rossigni tagliati corti che parevano punte di lesina, con ispalle grosse, rotonde, quasi gibbose.

Quest'uomo si voltò bruscamente e saettò chi l'aveva tocco di uno sguardo irritato cogli occhî grigi, che, in mezzo a quel faccione, apparivano piccolissimi, ma luccicavano d'un fuoco maligno.

– Che cosa c'è? domandò egli ruvidamente.

– Son venuti a cercare di lei da casa sua.

Quell'altro corrugò le grosse, fulve sopracciglia.

E senz'altro si voltò di nuovo al tappeto verde.

– Scusi, insistette il servo. Dice che è cosa di premura… Quella donna vuole assolutamente parlarle.

– Donna!.. È una donna?

– Sì, signore.

– Vecchia?

– Non più giovane.

– Piccola, tozza, rossa in viso?

– Appunto…

– E che cosa ha detto?

– Che aveva da parlarle, che premeva molto che la sentisse subito subito.

Quell'uomo sbuffò contrariato e dispettoso, ma non esitò più; puntò le manaccie villose sulla tavola e si alzò collo stento che avrebbe avuto se la tenace pece lo avesse appiccicato alla seggiola.

– Te ne vai, Lograve? gli domandò uno dei giuocatori.

– Un momento. Conservatemi il posto… vengo subito.

Raccolse in fretta le poche monete che aveva innanzi a sè, le cacciò in tasca, e col passo pesante seguì il servo in una camera attigua.

Là stava aspettando una donna quale era stata descritta dal giuocatore. C'era in essa qualche cosa di sommesso e di impertinente, di umile e di presuntuoso; l'aspetto d'una serva che fa da padrona. Vestiva un abitaccio di cotone da pochi soldi al metro e per difendersi dal freddo di quella notte invernale s'era avvolta in un mantello impellicciato da mille lire: con un fazzoletto di lana s'era coperto il capo, e ora, levatoselo in quel caldo ambiente, mostrava una capigliatura abbondante, nera come ala di corvo, in cui correvano già numerosi i fili d'argento. I pochi resti di una bellezza volgare, contadinesca, sparivano sotto la pinguedine che le faceva enormi le guancie e sotto una espulsione cutanea che glie le arrossava. Gli occhî, neri come i capelli, avevano un'espressione audace, curiosa, investigatrice, spiacente. La voce era forte, maschia; le labbra sottili della bocca troppo grande scoprivano ad ogni momento i denti bianchissimi e robusti.

Il collo grosso e corto aveva un giro di granate con un fermaglio rotondo d'oro, grosso come il dito pollice; e le mani tozze, corte, dalle unghie schiacciate, erano sovraccariche di anelli.

Appena vide entrare il signor Lograve, quella donna esclamò:

– Presto, presto, sor Lorenzo… Venga a casa… Sua moglie sta malissimo.

– Peggio di quando sono uscito?

– Assai peggio.

– È lei che ti manda?

– Oh! no… La non può nemmen più parlare. E poi essa non oserebbe…

– È di tuo capo che t'è venuta la bella idea, di venirmi a rintracciare fin qui?

– No, signore: è stato il medico.

– Il medico!.. C'è il medico in casa mia a quest'ora?

– Sicuro. Jeri sera ha trovato che le cose s'incamminavano troppo male e ha detto che se la malata peggiorava nella notte lo mandassimo a chiamare. La monaca mi venne a svegliare verso l'una, che le pareva la signora dovesse passare da un momento all'altro… Abbiamo mandato pel dottore, il quale è stato sollecito a venire, e si è stupito molto vedendo che il padrone di casa non c'era.

Lorenzo crollò le grosse spalle per significare che dello stupore del medico non glie ne importava niente.

– Fra il dottore e la suora me ne hanno dette tante che mi sono decisa a venire io stessa.

– Perchè voi?

– Perchè nè il servo nè il portinajo conoscendo il bell'umoretto di vossignoria hanno osato prendersi l'incarico.

Una fiamma salì alle guancie di Lorenzo che serrò i pugni e fece all'aria un gesto minaccioso.

– Sciocchi! imbecilli! poltroni! esclamò. Sono io il diavolo forse?.. Ebbene, ora che siete venuta, Marianna, riprenderete la vostra strada e tornerete a casa!

– E voi? domandò la donna guardandolo fissamente negli occhî.

– Io?.. io farò come mi piace.

– Ah! Lorenzo! disse la Marianna con una nuova famigliarità. Pensa bene! Tua moglie muore!

«Che cosa dirà la gente, se tu non sarai al suo capezzale, se ti si saprà in quel momento a giuocare in una biscazza?

Il passaggio al voi e poi al tu spiacque evidentemente al Lograve, il quale si guardò ratto d'intorno, pauroso che alcuno potesse aver udito: ma erano soli. L'uomo dissimulò il suo malcontento, e rispose facendo correre qua e là lo sguardo de' suoi occhietti inquieti:

– A me importa di quel che dirà la gente!.. Ma pure verrò.

– Subito?

– Sì.

– Con me?

– No, sarebbe villanìa partire senza una parola ai compagni. D'altronde ho qualche impegno… Va, va pure; fra dieci minuti sarò a casa.

– Sicuro?

– Sicurissimo.

– Non mancate.

– No.

– E presto…

– Ho già detto di sì, interruppe l'uomo con brusca impazienza.

Marianna si ricoprì il capo col fazzoletto, si serrò intorno la persona il mantello che aveva slacciato e lasciato cascare alquanto dalle spalle, e partì senz'altro saluto.

Lorenzo rientrò nella stanza del giuoco.

– T'abbiamo conservato il posto; gli dissero i giuocatori additandogli vuota la seggiola che aveva lasciata poc'anzi.

– Bene!.. grazie! rispose Lorenzo sedendosi. Un taglio e me ne vado… tanto da perdere ancora questi pochi che mi sono rimasti.

E ripose sul tappeto quella manciata di monete che aveva intascate levandosi di là. Seguitò a perdere; giuocò su parola; erano le sette del mattino quando il giuoco cessò e Lorenzo Lograve si alzò da quel tavolo con la perdita delle duemila lire che si era portate in tasca e di altre cinquemila da pagarsi. Camminò lentamente, quantunque l'aria frizzante di quel mattino invernale consigliasse ad affrettare il passo. Aprì l'uscio di casa colla chiave ed entrò. Tutto era bujo e silenzio. Senza accendere il lume attraversò la stanza d'ingresso, un'antisala, un salotto e chetamente venne ad affacciarsi all'uscio di una camera da letto. Le grandi cortine cascavano tutt'intorno al letto e lo chiudevano alla vista; appiedi era stato posto un tavolino con elegante tappeto e sopravi un crocifisso fra due candele accese.

Nessuno fiatava, nulla si muoveva; il luogo parve affatto deserto a Lorenzo che fece alcuni passi innanzi. Allora egli vide alzarsi dall'inginocchiatojo a destra una donna tutta vestita di nero che stava pregando. Era la monaca vegliatrice.

– Ebbene? domandò Lorenzo con voce bassa e quasi esitante.

La monaca lo guardò bene in faccia e gli rispose freddamente:

– È morta!

II

Quando Marianna era rientrata, il medico le aveva detto che, se il marito della moribonda tardava una mezz'ora, non l'avrebbe più trovata in vita; poi, non essendo più possibile alcun soccorso per quella infelice, erasene partito.

La morente pareva assopita: un respiro lieve, ma affrettato, le usciva dalle labbra assottigliate, aride, livide, semiaperte; le mani brancicavano con moto macchinale il lenzuolo; le palpebre richiuse apparivano così affondate nelle occhiaje che avreste detto non esservi più di sotto il bulbo; la fronte libera, dai capelli tirati indietro, pareva enorme, il viso invece stremenzito non maggiore di quello d'una bambina. La suora di carità, curva sull'agonizzante, ne bagnava le tempie e le labbra con un pannolino e recitava le preghiere dei moribondi.

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