Vittorio Bersezio - La testa della vipera

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Il ferito, lavatagli con acqua fresca la fronte, presto rinvenne, e fasciatogli come si potè meglio il capo, si sentì abbastanza in forze da potere tornare a piedi in collegio, dove però dovette rimanere un po' di giorni in infermeria.

Emilio gongolava nel suo segreto. Di quella scopertasi abilità si piacque coll'esercizio ad accrescere la perfezione; e in breve divenne sì esperto, che colla fionda e colla mano, a quella distanza a cui le sue forze potessero far giungere il sasso, egli era sicurissimo di colpire qualunque menomo oggetto preso di mira.

«La civiltà, pensava Emilio, ha voluto rendere terribile anche la debolezza di chi ha l'occhio giusto, la mano ferma, l'anima risoluta e il cuore saldo, colla invenzione delle armi. Quando io abbia in mano una pistola, non temerò più i muscoli d'acciajo di nessun Ercole o Sansone.»

In quel collegio si davano lezioni di scherma cui pochi degli allievi, e con poca buona voglia, seguitavano; Emilio fu ad esse assiduissimo e attentissimo. Piccolo, magro, sottile, ma vivacissimo, ratto, agile nelle mosse, con occhio acuto, pronto e giusto, egli divenne presto abilissimo schermitore, cui mancava la forza per durare a lungo, ma una destrezza impareggiabile dava una sicura superiorità nel primo assalto.

A sedici anni Emilio uscì dal collegio più cattivo assai di prima, più invidioso dei beni altrui, più irritato delle proprie condizioni, ma più dissimulatore, e avendo al servizio de' suoi odî e rancori una malizia più raffinata, una malvagità profonda, una volontà più ferma.

VI

A casa, per Emilio, ricominciò una vita uggiosa al pari, se non più, di quella che aveva vissuta prima di entrare in collegio. Il padre, molto invecchiato, non tanto per gli anni, quanto per la vita sempre peggio disordinata, era di umore più intrattabile che mai: la Marianna, vecchia anch'essa, diventata un'enorme massa di carne, più padrona di prima, comandava a bacchetta, faceva colla sua avarizia e col rigore il tormento della servitù, avvicendava le eterne querele e le strapazzate alla cuoca e al domestico, colle periodiche baruffe, di cui impiacevolivano la loro convivenza padrone e governante.

Emilio fu tenuto come uno schiavo, senza mai uno svago, sempre senza un soldo in tasca: vestito così miseramente, che se ne vergognava in mezzo ai compagni di università, dove studiava medicina. Aveva provato a dire le sue ragioni al padre, e questi lo aveva irosamente respinto; aveva supplicato e n'era stato schernito, aveva osato alzar la voce, e benchè adulto, ne aveva ricevuto quelle umilianti correzioni manuali di cui si era tanto abusato verso di lui fanciullo. Scese più basso nella sua degradazione di carattere: si diede ad accarezzare, adulare quella Marianna che in cuore odiava più di tutti al mondo; e qualche cosa ne ottenne: un complice silenzio per un'ora d'assenza dalla casa, una scusa per un tardo ritorno, e qualche liretta di quando in quando datagli di soppiatto del padre. Di questi denari vilmente strappati all'avarizia della governante, egli si serviva in un modo solo; nelle sale di scherma e nei tiri a segno, cui frequentava assai più zelantemente che non le aule universitarie. Non gli dispiacevano tuttavia gli studî intrapresi, e principalmente le esercitazioni anatomiche. Gli era con una specie di voluttà ch'egli col bisturi si metteva a tagliare in un corpo umano, stesogli davanti nella sua rigidità di cadavere, e ne scrutava i visceri e i giuochi meccanici dell'organismo, e le fonti di quella vita che s'era spenta, e le cagioni di quella morte che lo dava insensibile alla sua curiosità inesperta. Con più acre senso di curiosità desiosa assisteva alle operazioni chirurgiche: tagliare nelle carni vive, farne zampillare il sangue, vedere fremere i muscoli, contrarsi le fibre, spasimare tutto l'essere del paziente, era uno spettacolo che lo attirava, lo affascinava.

Nella casa del padrino capitava di rado. Colà non trovava che nuovi motivi da inasprire la sua invidia. Il signor Danzàno era giunto ad età matura, ma godeva di florida salute, procurata dalla savia regolarità della, vita, che gli conservava il buon umore, l'amenità delle maniere e l'affettuosità, di cui era un esemplare inarrivabile sua moglie. Cesare, il primogenito, presso ormai a terminare il corso d'ingegnerìa, erasi fatto giovane, bello, elegante, vivace quanto era stato bambino leggiadro ed amabile, e chiunque rimaneva ammaliato dalle graziette di Matilde, vero bocciuolo di splendida rosa. Cesare era d'umor gajo, espansivo, impressionabile, facile a prendere da altrui idee, tendenze, abitudini, volontà; Matilde, invece, riflessiva, lasciava scorgere nella gentilezza, che mai non la abbandonava, un'anima forte, un criterio sano e robusto. Il figliuolo di Lorenzo nelle sue visite ai Danzàno mostravasi umile, devoto, strisciante, pieno di riconoscenza: il padrino, la moglie di lui e Cesare ci credevano; poco o nulla Matilde, la quale provava una istintiva ripugnanza per la figura, le maniere, le ostentazioni d'umiltà e di devozione del cugino.

Fattosi abilissimo nel maneggio delle armi, Emilio Lograve desiderava ora l'occasione di provare in solenne maniera questa sua abilità: e l'occasione venne. Fra i compagni d'università egli non s'era fatto amare meglio che dai convittori del collegio: onde non gli mancavano nè le dimostrazioni di malevolenza e di disistima, nè gli scherni e le umiliazioni. Emilio decise di pigliare, al primo insulto, tale vendetta che levasse per sempre altrui la voglia di ritentare la prova. Si era nella sala delle esercitazioni anatomiche, e uno di quelli che più l'avevano in uggia, gli fece uno sgarbo; Lograve espresse il suo risentimento con vivaci, oltraggiose parole; ne nacque un diverbio nel quale, trovandosi ben presto soverchiato dall'avversario per robustezza di polmoni e per felicità di ingiurie, il nostro gli gridò:

– Vuoi finirla? o ch'io ti tappo quella boccaccia…

– Ah, sì? esclamò l'altro beffando. Vorrei veder come!

– Così! disse Emilio, e scaraventò in faccia al compagno una grossa spugna che serviva a lavare le tavole di marmo, tutta inzuppata di acqua sanguigna e di marciume.

Lo colpi in pieno viso, sporcandogli di quel sozzo umore occhî, naso, bocca e i panni. Il giovane, mezzo acciecato, mandò una grossa bestemmia, e mentre badava in tutta fretta a ripulirsi sputando, sternutando, purgandosi, gridava con voce soffocata dalla rabbia:

– Ah! porco! ah cane d'un cane!.. Aspetta, aspetta, che ora ti schiaccio come una cimice.

E appena ripulitosi un poco, fece per slanciarsi contro Lograve: questi, freddo freddo, teneva impugnato il coltello anatomico, e gli gridò con l'accento di una risoluzione irremovibile:

– Se tu mi vieni addosso, ti pianto questa lama nel cuore, com'è vero il sole!

Tutti i presenti capirono ch'egli avrebbe fatto quello che diceva: e gettatisi in mezzo, trattennero il furibondo che urlava:

– Ah, mostricciuolo infame, caricatura di scimiotto, me la pagherai, mi darai soddisfazione.

– Quanto e come e dove e quando vorrai, e ti so dir io che avrai finito di fare il gradasso e insultare la gente.

I compagni intromessisi trassero via di là lo sbuffante giovane: e Lograve pensò subito a procurarsi due padrini che lo assistessero nel duello dall'avversario minacciato e da lui desiderato. Uno lo scelse fra i condiscepoli, l'altro volle che fosse il cugino Cesare, al quale piacevagli far conoscere la sua abilità nelle armi, la sua freddezza nel pericolo, la sicurezza della sua vendetta. Ai suoi rappresentanti egli commise di accettare qualunque arma fosse proposta, volle gli promettessero che quando troppo leggiere fossero le condizioni dello scontro dagli avversarî messe innanzi, essi le avrebbero rese più severe, essendo sua ferma intenzione di non fare una ridicola mostra, ma di compiere cosa seria e di gravi conseguenze. Fu scelta la pistola da tiro; la distanza quindici passi; alla sorte chi avrebbe tirato il primo; tanti colpi quanti fosse piaciuto ai combattenti.

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