Vittorio Bersezio - La plebe, parte IV

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Vittorio Bersezio

La plebe, parte IV

CAPITOLO I

Secondo era inteso fra il marchese di Baldissero, Don Venanzio e Maurilio, quest'ultimo, la mattina dopo il colloquio che aveva avuto luogo fra i tre ora nominati personaggi, erasi recato al palazzo del marchese per fissarvi senz'altro la sua dimora in qualità di segretario.

Dal marchese erano stati dati gli ordini opportuni. Appena si presentò, Maurilio fu condotto dal mastro di casa che lo ricevette come individuo specialmente raccomandato dal padrone.

– Signore, dissegli, tutto è pronto ad accoglierla, e nella sua camera troverà un assortimento d'abiti fra cui potrà scegliere quelli che meglio le piacciano e meglio le si attaglino.

Maurilio arrossì fino alle orecchie e nascose la sua confusione in un inchino, balbettando inintelligibili parole di ringraziamento.

La camera destinatagli era pulita, allegra, appetto a tutte le altre abitazioni ch'egli aveva avute sino allora, elegante. Il sarto e gli abiti, come aveva detto il mastro di casa, lo stavano aspettando. Scelse panni scuri, senza esagerazione di forme alla moda; e quando vestito di nuovo da capo a piedi, e' si guardò nello specchio che stava sopra il canterale, quasi non riconobbe se stesso: fece al suo pallido volto riflesso dalla lastra un sorriso in cui c'era più vergogna che compiacenza, e disse mentalmente a se stesso:

– Tu se' un altro Maurilio… I panni ti faranno oramai giudicare dal mondo un uomo ammodo… Ma sei vestito di roba altrui!..

Il sarto, secondo le abitudini del più di questi mercatanti, cianciò egli la parte sua e quella del giovane a cui la confusione dell'animo e della mente non lasciava aver parole fatte; rifornitolo per allora d'ogni parte d'abbigliamento, gli prese misura per altri abiti da farglisi di ricambio, che tali erano gli ordini di S. E., e partissi accompagnato dal domestico che era stato testimonio a codesta vestizione, e la cui presenza non aveva conferito poco a vergognare ed imbarazzare il timido Maurilio.

Questi rimase solo in mezzo alla modesta suntuosità di quella stanza che gli era destinata. E' guardò allora tutt'intorno a sè, come per conoscer bene quegli oggetti che lo circondavano, cui non aveva ancora osato esaminare e prenderne, come dire, possesso: un lettino in ferro, una tavola da lavabo, un cassettone con sopravi lo specchio incorniciato di legno su cui una vernice di color naturale, un caminetto alla Franklin, un seggiolone appiè del letto, una mezza dozzina di seggiole impagliate, di quelle leggerissime di Chiavari, un armadio in un angolo, un tavolino da scriverci, un acquasantino d'alabastro a capoletto, quattro incisioni che rappresentavano le imprese di Cortez al Messico, in cornici di legno appese alla parete tappezzata di carta colore di foglia secca, bianchissime cortine alla finestra, tendoline ai cristalli della medesima, sullo spazzo di quadrelli immasticati, una lista di tappeto innanzi al letto, per mettervi su i piedi scendendone, ed ecco tutto. Ma tutto respirava la pulizia, il buon gusto e l'agiatezza. Maurilio si piantò innanzi allo specchio e vi si mirò con una specie di fissità inquisitoriale, mezzo dispettosa, quasi maligna.

– Che fai tu qui? s'interpellò egli con quel suo sogghigno: sei tu fatto per questi ambienti? è egli tuo posto questo? Povero buttero di campagna, misero figliolo del fangoso rigagnolo della strada, sangue di plebe, come osi tu mettere il piede su questo terreno? E che ci vieni a far tu? a viverci da parassita?

I suoi lineamenti si contrassero con una dolorosa espressione.

– Parassita io?

Scosse il suo grosso capo arruffato e gettò uno sguardo che pareva di sfida e di minaccia alla sua immagine rimandatagli dallo specchio.

– No, no, e poi no… Sarà il mio lavoro che mi guadagnerà questo pane, che mi guadagnerà questi abiti, che pagherà questa dimora. Non ho io vissuto press'a poco in tal guisa quand'ero agli stipendi del signor Defasi?.. E perchè questo non avrebbe ad essere mio posto?

Ricordò le parole della vecchia Gattona , che Selva e Don Venanzio gli avevano riferite, e le quali potevano far argomentare d'una sua non plebea origine, sentì risollevarsi più vive in cuore le speranze, vissute in lui sempre, ora rinfocolate cotanto, di giungere a penetrare il mistero della sua nascita e trovare in fondo di esso un onorevole, forse illustre destino.

– Ah! esclamò egli ad un tratto passandosi la mano sulla vasta, pallida fronte: sento che da questo dì comincia per me una sorte novella. Più trista delle varie che ho subite non può essere; sarà dunque più lieta?..

Sentì, cominciando dal cervelletto giù giù pel midollo spinale scorrere e diramarsi per tutti i nervi, passare in tutte le vene quel certo fluido, dargli una lieve scossa quel brivido cui produce una intima emozione, e che a lui pareva un vincolo d'unione, il mezzo di rapporto fra sè ed il sognato suo spirito protettore. Levò gli occhi verso il cielo, impallidì ancora nelle guancie incavate, e giungendo le mani come si fa per pregare esclamò:

– Oh angiolo mio benigno! oh madre mia! Sei tu che qui mi hai tratto? Sei tu che mi vuoi ospite in questa casa?..

Un novello pensiero a tali parole s'impadronì di ogni facoltà del suo animo: un pensiero che era immanente in lui, ma che ora altre momentanee sensazioni parevano avere assopito: il pensiero di lei!

– Questa casa è la sua! Soggiunse egli, interrompendo il suo primo discorso, e cambiando di tono: essa abita qui, a poca distanza da me, sotto il medesimo tetto; e la potrò vedere, e la vedrò tutti i giorni.

Schiuse le labbra ad un sorriso di beatitudine e corse alla finestra. Lì sotto era la strada cui egli aveva passeggiato tante volte, là in faccia era la cantonata, a cui tante volte s'era fermo a contemplare quel palazzo, dov'egli ora si trovava. La stanza assegnatagli era al secondo piano e Maurilio riconobbe con una strana sensazione che poteva dirsi di gioia, come la fosse quasi al di sopra di quella in cui aveva indovinato dormire Virginia.

Questo nome ripetè egli come se la invocasse.

– Virginia! Virginia!

All'udire la sua voce far suonare quella parola fra quelle pareti, si riscosse, tremò, si soffuse di rossore, si volse rattamente a guardar indietro e dintorno, come pauroso alcuno l'avesse potuto udire. Si rassicurò vedendosi compiutamente solo; non ci aveva altra compagnia, non s'udiva colà altro rumore che quello del foco che schioppettiva nel caminetto.

– La vedrò ogni giorno: ripetè quasi avesse bisogno di dirselo più volte, affine di credere egli medesimo; la vedrò oggi stesso, fra poco!..

Un legger colpo battuto all'uscio della sua stanza lo fece sussultare.

– Avanti: diss'egli volgendosi alla porta, curioso e quasi inquieto di vedere chi fosse.

S'apri un battente e comparve la faccia bonaria di Don Venanzio, più lieta, più sorridente, più benigna del solito.

– Cospetto! esclamò il buon vecchio, come sei bene alloggiato, e come vestito! Mi sembri un medico o un avvocato.

Si fregò le mani con espressione di viva contentezza:

– Dio sia lodato che mi ha voluto far la grazia di soddisfarmi uno dei maggiori desiderii che avesse ancora la mia vecchiaia: quello di vedere il tuo destino assicurato, Maurilio, mio buon figliuolo.

Il giovane, preso da un vivo intenerimento, sentì inumidirsi le ciglia e non seppe fare altra risposta che gettarsi al collo del sacerdote ed abbracciarlo. E Don Venanzio, tenendolo così stretto al suo seno in un affettuosissimo amplesso, continuava:

– Sì il tuo destino assicurato, perchè qualunque cosa venga o non venga a scoprirsi intorno alla tua nascita, la protezione di questo generosissimo uomo, che è il marchese, non ti può mancar più, e tu non sei tale da rendertene indegno mai…

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