Vittorio Bersezio - La plebe, parte I

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La plebe, parte I: краткое содержание, описание и аннотация

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Maurilio aveva ripreso il suo atteggiamento abbandonato e come stracco; tornava a sorreggere colla mano il capo che avreste detto essergli grave; e seguitava a guardare Gian-Luigi colla stessa attenzione osservativa; se non che un po' di compassione pareva ora congiungersi al sentimento scrutatore di prima.

– Io so, io so! Disse Gian-Luigi. Appunto perchè so, grido contro l'ingiustizia dell'assetto sociale e contro la barbarie di chi mi ha abbandonato povero e solo in questa empia lotta del mondo dove non vince che il danaro.

Maurilio tacque un istante, poi replicò, e col medesimo accento di prima, la domanda che già avea fatta poc'anzi:

– E tua madre?

– Ancora! Esclamò il medichino con una bestemmia. Tu chiami con questo nome la donna che mi raccolse?

– Sì, perchè questo santo nome la se lo merita. Quella povera donna ti ebbe ad allattare dall'ospizio, ma ti pose vero amore materno. Ti allevò come suo, tutta si sacrificò per te, come se tu fossi proprio suo sangue. Quante volte la non si è tolto essa lo scarso boccon di pane dalle labbra per darne a te, per soddisfare alcuno dei tuoi infantili desiderii, e più tardi dei tuoi giovanili capricci! Or bene, che cosa hai tu fatto di questa povera donna sublime? di questa ignorante ma generosa creatura cui la Provvidenza, o se ti piace meglio il fato ha posto sugli ultimissimi gradini della scala sociale e il cuore invece alloga fra le più elette del genere umano? La tua condotta fieramente ti accusa…

– Come! Interruppe impetuosamente Gian-Luigi. Chi ti ha parlato di me? Chi mi accusa? Che ti fu detto?

Maurilio pose una di quelle sue grosse manaccie sulla spalla del compagno, e gli disse con accento mesto insieme e grave, come potrebbe avere per un fratello un fratello maggiore, quasi direi per un figliuolo un padre.

– Gian-Luigi, io t'ho amato molto, ed alcune volte nella solitudine in cui vivo, riandando il passato, le poche dolci memorie che ho di esso mi richiamano te alla mente, quale hai meco vissuto allora; e parmi sentirti nel medesimo luogo tuttavia entro il mio cuore. Al cominciare di questo colloquio tu hai fatto appello a cotali ricordi, ed io, a dispetto della freddezza, dell'assoluta indifferenza che mi ero imposta di aver sempre omai a tuo riguardo…

Il medichino sussultò sulla sua seggiola.

– Ma perchè? Dimmi in nome di Dio ciò di cui mi accagioni…

– Lasciami parlare, e lo saprai: continuò col medesimo accento Maurilio. A dispetto adunque di cotal risoluzione io nell'udirti parlare della nostra infanzia, provai nell'animo un intenerimento che mi fece di nuovo rivedere in te il fratello d'un tempo; quindi, se prima era mio pensiero non dirti pure una parola di quelle cose che ora ti esprimo, determinai di botto favellarti a cuore aperto. Tu accennasti a quel tempo, non dirò felice, ma certo meno angosciato e men tristo – almanco per me, quantunque di molto, come sai, mi toccasse soffrire. Ma poichè tu li abbandonasti quei luoghi in cui passarono i nostri anni primi, e li abbandonasti per l'agonia di godere le abbaglianti delizie mondane che il villaggio non ti poteva dare, per arraffare alla sorte la tua satolla di gioie della vita cittadina, le quali da lontano, traverso la nostra ignoranza, ci apparivano quali al viaggiatore nel deserto la crudele illusione della Fata Morgana; dacchè li abbandonasti quei luoghi, hai tu cercato mai di rivederli? Io ne ho sentito tante volte, io ne sento continuamente il bisogno. Quando ho il petto troppo affannato da questa pesante atmosfera cittadina, quando ho l'animo troppo amareggiato dallo spettacolo di queste miserie e di questi dolori; quando ho le mie deboli membra troppo stanche da questo oscuro lavoro che mi dà scarsamente il pane, io con più intensità di desiderio anelo alla bellezza di quel soggiorno villereccio in cui primamente si ricordano d'aver visto la luce i miei occhi, in cui primamente sentii pensare il mio cervello. Allora, con più accanito lavoro da una parte e con maggiori privazioni dall'altra, tento raccozzare il pane di pochi giorni di ozio, e una volta guadagnato questo per me grandissimo capitale, io mi sento, io sono ricco, più ricco di messer Nariccia che anche tu conosci e accumula marenghi sopra marenghi pressurando il povero coll'arte infame dell'usuraio; io parto con passo animoso dalla città, e corro, corro verso quella valle, e a seconda che di qua mi allontano, sento più libero il rifiato, più aitante il corpo affralito, più serena la mente, troppo spesso e troppo conturbata. Allorchè là son giunto, con che emozione rivedo quei conscii luoghi! La misera casipola dove vissi vide pure molte mie lagrime di fanciullo; anzi quasi non altro che lagrime: e tuttavia non passo mai davanti ad essa senza che il cuore mi palpiti. Mi soffermo sulla soglia della porta di strada a guardar dentro lo stretto e sempre sucido cortile, in cui nel fimo razzolan le galline, in cui presso il truogolo grugnisce e s'impantana nella melma il maiale; vedo la scura, bassa, angusta, affumicata cucina, e in fondo ad essa il camino, entro cui nelle lunghe serate d'inverno io, accoccolato nel cantuccio più rimoto, guardavo a brillare la fiamma che cuoceva la poca cena e tutto intirizzito dal freddo fissavo quello splendore con infinita intensità di desiderio; il petto mi si gonfia di sospiri e gli occhi di lacrime… E passo! Nessuno più mi conosce colà. Quelli che mi tormentavano e mi davano quel poco di pane amarissimo che mi teneva in vita, non ci sono più. Delle faccie sconosciute mi appariscono in quel quadro. Eppure mi commuovo. Oh! se alcuno mi vi avesse amato come ti amò la Margherita!..

Gian-Luigi fece un movimento che Maurilio attribuì all'impazienza.

– Non isdegnarti… Disse. Io son fatto così: o non dir nulla, o dare pieno sfogo ai miei sentimenti. Poichè ho cominciato, lasciami dunque dire a mia posta.

CAPITOLO VI

Dopo una brevissima pausa, Maurilio riprese:

– Ah! se alcuno mi avesse amato, ah! se alcuno mi amasse colà! Quando respiro quelle aure, io divento migliore. Anche colà, certo, sono e miserie e dolori, ma l'umanità vi è men trista e la fatalità meno crudele che non nei bassi fondi della cittadinanza, dove s'agglomera il marame della massa sociale; ma colà vi ha pure una specie di egloga in azione che la natura pietosa manda come una consolazione al diseredato della gleba. La campagna ha il sole, ha la primavera, ha le feste sane e moralizzatrici, del lavoro sotto la cappa del cielo, la fienatura, la messe, la vendemmia… Avessi potuto essere un coltivatore e maneggiare l'aratro! Presso la spica e presso il grappolo ad ogni modo si soffre meno. Qui in questa bolgia di fango, sotto una cappa di nebbia, la miseria è più crudele, senza pure il temperamento della dolce vista del paese… Io mi reco sempre al cimitero. Non ci ho nissuno di mio sangue che dorma là dentro; si consumano in quella terra le ossa di coloro che hanno tormentata la mia infanzia. Non un affetto che mi leghi alle ombre di quei morti. Eppure, io siedo con mesta e dolcissima tenerezza su quei tumuli e il vento che geme sommesso fra le alte erbe di quel campo solitario, mi canta in una grave armonia mille cose inesplicabili che mi scendono al cuore e mi accarezzano l'anima. Poscia vado alla chiesa parrocchiale, dove la mia voce di fanciullo suonava sotto la volta del coro nel canto degli inni sacri, dietro la guida della voce ancora robusta di don Venanzio. L'hai tu dimenticata la testa canuta e grave di quel buon vecchio, vero sacerdote del Vangelo? Ecco l'uomo che io ho amato di più nell'infanzia, che mi amò come amava tutti al mondo, ch'egli comprendeva sotto il nome di prossimo, che mi avrebbe forse amato anche di più, quasi come un figliuolo, se non avesse visto la mia ragione, forse il mio orgoglio ribellarsi a quella schiavitù ch'egli portava da tutto il tempo della sua vita e porta tuttora, ch'egli trovava dolce e che voleva impormi, la schiavitù della fede.

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