Vittorio Bersezio - La plebe, parte I

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Marcaccio diede un gran pugno sulla tavola che fece trabalzare bottiglie e bicchieri, mandò una fiera bestemmia e disse con tono che non prometteva niente di bene:

– Ora lo aggiusto io!

Si alzò in piedi e si raffermò sulle gambe che gli traballavano un poco, poi datosi un'aggiustatina a quel brandello di cencio che gli serviva di cravatta, rimboccate le maniche sfilacciate agli orli della casacca, mentre fulminava con isguardi pieni di minaccia lo sconosciuto, venne a piantarsi innanzi a quest'ultimo in atto pieno di provocazione.

L'imprudente ascoltatore del colloquio dei due beoni, non tardò ad accorgersi delle ostili intenzioni di Marcaccio, e ne apparve molto contrariato e dirò meglio sgomento. Si trasse egli indietro contro la parete, e là sembrò quasi rannicchiarsi in se stesso, mentre i suoi occhi s'abbassavano paurosi a terra e una pallidezza, maggiore di quella ch'egli aveva quando era entrato in quel luogo, tornava a distendersi sulle sue guancie che il calore di quell'ambiente aveva d'alquanto colorite. Con una ratta sbirciata di sottecchi guardò se il piccino avesse terminato il suo pasto, e certo gli sarebbe stato gradita cosa che ciò fosse, ed egli potesse svignarsela di subito; ma il ragazzo era nel migliore della sua cena; un'altra occhiata intorno alla stanza lo ammonì che in ogni possibil caso, fra tutta la gente che vi era colà, egli non avrebbe potuto trovare aiuto o difesa.

Marcaccio tese una delle sue mani grosse, nere e villose, stretta a pugno, verso la faccia dello sconosciuto, e gli disse con tono affatto rispondente all'insolenza delle parole:

– Orsù, mio bel fusto, qui abbiamo da assestare i conti.

Il giovane così interpellato alzò un momento gli occhi su chi gli parlava: ma li chinò tosto, appena incontrati quelli ferini di costui, che lucevano sinistramente in fondo alle occhiaie sotto le spesse e fulve sopracciglia.

– Che cosa volete? Diss'egli facendo un evidente sforzo per apparire calmo e sicuro, e colla voce che a dispetto di questo sforzo gli tremolava un pochino. Io non vi conosco, nè voi mi conoscete, credo.

– Sì, per Dio, che vi conosco: urlò Marcaccio dando un gran colpo sulla tavola con quel pugno che aveva teso verso il giovane; e la razza di gente a cui voi appartenete, gua' io son uso a trattarla come fo di questo gotto.

E preso un bicchiere sul desco, lo scaraventò per terra mandandolo in mille frantumi.

Tutti coloro che si trovavano nell'osteria, a quello scoppio di voce ed al rumore, si volsero verso la tavola dove succedeva tal scena, ed alcuni alzandosi in piedi, altri appressandosi curiosamente, si apprestarono tutti ad assistere allo spettacolo che prometteva loro un po' di spasso.

Meo mostrò al di fuor della botola la sua faccia da imbecille in cui aveva tanto d'occhi spalancati.

Il ragazzo che mangiava, spaventato, aveva lasciato cader sul piatto il tozzo di pane e il boccon di formaggio in cui mordeva con tanta voglia e si era riparato contro la muraglia quatto quatto, pronto a scivolar per di sotto la tavola a fuggire ogni pericolo.

Lo sconosciuto, più pallido ed inquieto che mai, mandava attorno degli sguardi sgomentati come per cercare una via di scampo.

– Io non vi ho fatto nulla: balbettò egli con voce appena intelligibile. E se qualche cosa di me ha potuto offendervi… posso assicurarvi che la non era mia intenzione affatto affatto.

Le simpatie di tutti gli spettatori di quella scena erano già di natura per Marcaccio contro il signore che era venuto a ficcarsi in mezzo a loro, ma la paura manifestata da quest'ultimo era fatta ancora per accrescergliene l'ostilità, mentre nulla più inferocisce una folla che la timidità della vittima.

Le parole dello sconosciuto furono accompagnate da un mormorio di scherno e di minaccia che accrebbe in Marcaccio la prepotenza e nell'altro lo sgomento.

– Dagli, dagli a quel muscadino : disse apertamente qualcuno.

– Fagli ballare il rigodone!

– Giù, giù su quel cappello!

Mastro Pelone credette sua convenienza d'intromettersi.

– Uhm! mormorava egli fra sè: questo sciamannato mi fa una buggera, ma di quelle… che il fistolo lo colga! Il commissario mi farà chiudere l'osteria, se non mi manda anche me in gattabuia… Che benedetto cervellino da galletto che ha questo scimunito!

Venne presso a Marcaccio e ponendogli chetamente sopra un braccio una di quelle sue mani da scheletro, gli disse con tono dolcereccio e con un sorriso che pareva la smorfia d'un epilettico:

– Via, via, amico mio, stai buono e non facciamo tafferugli…

Ma l'ubbriaco gli si voltava con brutto viso e dandogli una manata nel petto lo respingeva ruvidamente da sè, dicendo in mezzo alle più orride bestemmie:

– Lasciami stare, oste dell'inferno, e va a cacciar il naso nelle porcherie delle tue cazzeruole.

– Uhm! Esclamava Pelone assalito dalla tosse, cadendo seduto sopra una panca. La va a finir male.

Marcaccio tese una mano per prendere lo sconosciuto al bavero del vestito. Il giovane a quell'atto, parve ritrovare un po' d'energia: saltò in piedi di scatto, e schivando la branca dell'ubbriaco, gridò:

– Lasciatemi Che prepotenza è questa? Che vi ho fatto in fin dei conti?

– Che mi hai fatto? Gridò Marcaccio. Mi hai fatto che sei un codardo di spia e che le spie non le voglio tollerare, giuraddio!

Un susurro minaccioso corse per tutta la bettola.

– Una spia! Una spia! Dàlli, dàlli.

Lo sconosciuto ebbe un impeto d'indignazione che gli diede coraggio. Un vivo rossore gli salì alla faccia, la sua fisionomia prese di colpo una espressione di risolutezza e di forza, il suo sguardo folgorò, le vene della nobile fronte diventarono turgide, la persona gli si drizzò con un aspetto di imponente fermezza che non avreste mai più creduto possibile in lui.

– Alla croce di Dio! Gridò egli con voce vibrante. Io una spia! Oh! Non ripetete questa infame parola, sciagurato, o vi pianto questo coltello nel cuore.

Ed afferrato con mano convulsa il coltello che stava sul desco, ne fece balenare la lama alla luce rossiccia della lampada.

Questo atto ne impose a tutta prima all'adunanza ed a Marcaccio medesimo. Vi fu come un momento di stupore; e l'ubbriaco, involontariamente dominato da quella personalità che rivelava la sua potenza, indietreggiò.

Ma lo sforzo non potè durare a lungo nella indebolita natura di quell'essere strano; di subito egli divenne più pallido d'un cadavere, e ricadde seduto spossatamente sulla panca, al momento appunto in cui la riazione di quel primo effetto di stupore spingeva Marcaccio a maggiore audacia e prepotenza.

– Minaccie a me! Urlò quest'ultimo. Credi tu mettermi paura? sacramento!..

– Ah! Non mi fate del male; esclamò lo sconosciuto tendendo supplichevolmente le mani verso l'ubbriaco che si precipitava su di lui.

E Marcaccio stava per afferrare il poveretto, e chi sa che cosa ne sarebbe accaduto, se ad un tratto non si fosse aperto l'uscio a vetri della stanza vicina, e il giovane dalle maniere eleganti, che abbiam detto esservi colà dentro, non fosse comparso, gridando con voce imperiosa:

– Alto là! Che cosa c'è?

CAPITOLO V

Era davvero un bel giovane. Alto e ben piantato, spalle quadre e petto robusto, un capo svelto e una faccia con espressione di coraggio indomabile e di naturale distinzione; uno di quegli sguardi che fanno abbassare gli altrui; sulle labbra carnose e rosse del color del sangue un abituale sorriso pieno d'ironia, di scherno e di superbia; nell'occhio grifagno alcun che di feroce; fra le sopracciglia, nella sua fronte giovenile, a volta a volta si disegnava il solco profondo d'una ruga, che dava alla sua bella fisionomia un aspetto di durezza e di minaccia, che pareva un segno di maledizione stampatogli dalla collera divina, come la traccia del fulmine di Giove sul capo dei ribelli Titani.

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