Antonio Ghislanzoni - Racconti politici

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VI

Vi è qualche cosa di magnetico nel nome di Garibaldi, come nella sua figura e nel suono della sua voce. La sua biografia si smarrisce nell'ideale come quella di tutti i profeti, di tutti i martiri della umanità. Delle sue gesta di Montevideo il popolo ignora i particolari, ma appunto da questo mistero che le involge quelle gesta assumono un carattere sovrumano. È accreditata la voce che Garibaldi in quelle remote regioni venisse orribilmente torturato dai nemici della libertà. Nelle tradizioni misteriose del popolo, Garibaldi apparisce vincolato all'albero di una nave come il Cristo alla colonna. Quando l'uomo delle Americhe apparve per la prima volta a Milano nel 1848, colla sua chioma raffaellesca, col suo sguardo fiammeggiante e soave, colla sua barba rossigna e flessibile, col prestigio di una virilità fiorente, colla sua tunica rossa e il fazzoletto a tracolla, egli parve il Nazareno risorto, il Cristo delle battaglie. L'apparizione fu breve, ma i tratti di quell'uomo si stamparono in tutti i cuori. Dopo i disastri d'Italia, Garibaldi dovette eclissarsi – pure le sue nobili sembianze rimasero scolpite nella mente del popolo come un simbolo di riscossa e di libero avvenire.

Che avvenne di Garibaldi dopo la sua ritirata da Roma? Dove si è recato? Quali furono le sue gesta?

Per circa dieci anni, l'eroe leggendario fu ancora travolto dal mistero. Un episodio lugubre, la morte di Anita, fu ripetuto sommessamente nei crocchi del popolo, il quale, tutto in massa, condivise i dolori del suo idolo. Milioni di cuori portarono il lutto per una donna, milioni di cuori giurarono vendicare una morte. – Di Garibaldi si disse: egli va errando sull'oceano, egli spazia fra le libere onde, aspettando il gran giorno della rivincita. Per dieci anni alla fantasia degli italiani umiliati ed oppressi l'intrepido difensore di Roma si dipinse errabondo e pensoso sovra una piccola prora agitata dai flutti. – La prima bandiera tricolore che ebbe a sventolare sulle alture lombarde nel 1859 fu piantata da Garibaldi. Pei Lombardi egli fu il Cristo risorto che viene a portare la buona novella! Le vittorie di San Fermo e di Palermo fecero stupire l'Europa – la disfatta di Aspromonte rattristò tutti i cuori liberali – l'eroe ferito al tallone ricordò l'Achille fatato, e il sangue che grondò dalla piaga rese venerabile l'ignorato promontorio siccome un nuovo Calvario. Tutti i partiti politici guardano riverenti a quella sublime figura. I despoti lo rispettano ed ammirano – i potenti gli invidiano la popolarità – i deboli e gli oppressi sentono che, lui vivo, la loro causa non è perduta. Dovremo noi aggiungere che le donne adorano in lui l'ideale della energia e della dolcezza, che le madri gli affidano la vita dei loro più cari con uno slancio di fiducia che tocca la passione? – Divinizzare una creatura umana è peccato di fanatismo, un peccato che molto spesso viene a scontarsi con amare delusioni. Ma quando il fanatismo si estende all'universo, quando un uomo diviene il simbolo di una idea, e come tale può rendersi adorato da tutti i suoi contemporanei, convien credere che questo uomo riunisca in sè medesimo tali doti da apparire colossale e quasi sovraumano. Se Garibaldi non è un colosso, è d'uopo confessare che a di lui confronto la società attuale è pigmea.

VII

La notizia era vera. Garibaldi, partito il giorno innanzi da Caprera, si recava nelle provincie lombarde ad ispezionare i suoi volontari e ad assumerne il comando.

All'indomani, verso le ore due, una folla considerevole traeva alla stazione della ferrovia. Quella popolazione scettica e letargica si era improvvisamente scossa. Nelle fisonomie brillava la luce. I fanciulli e le donne – questa eletta porzione della società che è la più ingenua e la più impressionabile – rivelavano nell'incesso, nel movimento concitato della persona, un immenso tripudio. Il popolo scamiciato, il popolo vestito di velluto si arrampicava sulle muraglie, invadeva i capitelli delle colonne. C'erano dei nani che parevano giganti, dei giganti che parevano pigmei. Quella moltitudine che si era precipitata nella sala di aspetto, che si era distesa per oltre mezzo miglio lungo il margine della ferrovia, all'approssimarsi dell'ora desiderata divenne immobile e muta. Quegli ultimi minuti di aspettazione parvero secoli.

Non mai il fischio di una locomotiva parlò più eloquente alla folla. Tutti i volti impallidirono. I fanciulli giunsero le mani – qualcuno cadde in ginocchio e fece il segno della croce.

Al silenzio, all'immobilità successe un uragano di grida, una agitazione indescrivibile. Il convoglio aveva rallentata la corsa, e tutti gli sguardi si erano pasciuti di una sublime visione. Garibaldi avea reso il saluto alla folla e ciascuno si era vivificato.

Prima ancora che il convoglio si arrestasse, i più enfatici erano saliti sui gradini e sui tetti delle carrozze. Il vagone occupato da Garibaldi e da' suoi intimi fu preso d'assalto con impeto formidabile.

– Silenzio! gridavano mille voci; lasciatelo parlar lui!.. Sentiamo cosa dice lui… Ma altre migliaia di voci non cessavano di urlare a tutta possa: «viva Garibaldi! viva l'Italia! viva la guerra!»

A un tratto la fisonomia di Garibaldi da ilare e benigna divenne radiante. I suoi occhi parevano salutare al di là della folla qualche persona amica e desiderata.

In un lampo tutte le teste si volsero.

– Fate largo! fate largo! tuonò il generale levandosi in piedi – ecco qualcuno che non perde il suo tempo in vane dimostrazioni… No: non è tempo di parole codesto!.. l'Italia domanda soldati e carabine!

Tre giovani in camicia rossa si apersero il varco attraverso a quella immensa barricata di popolo, e animati dal sorriso e dalla voce del generale che loro stendeva le braccia come a fratelli, si lanciarono nella sua carrozza.

Quasi al medesimo punto la campanella diede il segnale della partenza e il convoglio fra un uragano di viva uscì trionfalmente dalla stazione ed indi a poco disparve.

Quei tre giovani, apparsi inaspettatamente a completare la solennità e l'entusiasmo di un istante, divennero il soggetto di tutti i discorsi.

Chi erano? Nessuno li aveva riconosciuti. La camicia rossa aveva abbagliato gli sguardi. I meglio informati sostenevano che erano tre faccie forestiere; altri invece, affidandosi alle ipotesi, profferivano dei nomi e inventavano delle favole assurde; ma l'episodio dei tre garibaldini non cessava per questo di rappresentare un enigma.

VIII

Com'era da prevedersi, quella straordinaria effervescenza di popolo tornò propizia alla attrice che in quella sera dava in teatro la sua serata di benefizio. Il nuovo dramma La partenza dei volontarii , ritraeva dagli avvenimenti del giorno un'interesse di attualità quale l'autore ed i comici erano lungi dall'aspettarsi.

Allo schiudersi delle porte il teatro fu invaso dalla folla. La platea, le gallerie, il loggione traboccarono di spettatori. L'intera città si era travasata in quell'angusto recinto.

Eugenio Lanfranchi, l'autore della commedia, passeggiava fra le quinte collo sgomento nell'anima. S'egli avesse preveduto quel formidabile concorso di spettatori e di giudici, non avrebbe osato sfidarlo.

Gli pareva che in paragone degli avvenimenti reali il suo dramma fosse una frivola e sbiadita parodia. Le forti commozioni da lui provate al cospetto di Garibaldi, alla vista dei tre sconosciuti che si erano slanciati nella carrozza dell'eroe per seguirlo sui campi di battaglia, gli rinfacciavano la pochezza delle sue espansioni drammatiche. Due giorni innanzi egli temeva di aver esagerato le tinte; ed ora vedeva impallidire i colori e smarrirsi i contorni de' suoi personaggi. – Quale orribile fiasco! pensava egli misurando la scena a passo concitato – darei due anni del mio stipendio, perchè la rappresentazione non avesse luogo!

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