Pietro Giannone - Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9

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Non si tralasciò ancora da Spagna, in tempo del suo governo, premere il Regno con nuovi donativi; onde ragunatosi un Parlamento generale in S. Lorenzo, nel quale, come Sindico, intervenne Alfonso di Gennaro nobile della piazza di Porto, si fece al Re un donativo d'un milione e ducentomila ducati, oltre di venticinquemila altri donati al Vicerè.

Ma poco da poi infermatosi il Conte, fu il male così pertinace, che sempre più avanzandosi, finalmente a' 19 d'ottobre di quest'anno 1601 gli tolse la vita. Fu il suo cadavere con magnifico accompagnamento trasportato nella Chiesa della Croce de' Frati Minori, dove gli furon celebrate pompose esequie. Governò egli il Regno due anni e tre mesi, nel qual tempo promulgò diciassette Prammatiche tutte savie e prudenti, per le quali si emendano molti abusi ne' Tribunali, e si danno altri salutari provvedimenti, che possono vedersi nella tante volte accennata Cronologia , prefissa nel primo tomo delle nostre Prammatiche.

Lasciò morendo, in vigor di regal carta venutagli mentr'era infermo, per Luogotenente del Regno D. Francesco di Castro suo figliuolo, giovane di 23 anni, ma maturo di senno e di prudenza, il quale lo governò insino ad aprile del 1603, nel qual tempo pubblicò diece savie Prammatiche , ed ebbe pure ad accorrere alle scorrerie del Bassà Cicala , il quale nel 1602 pose le sue genti in terra alle marine del Regno, e saccheggiò Reggio 3 3 Thuan. tom. 3 lib. 127 p. 971. . Cedè egli il governo al Conte di Benavente , eletto da Filippo per nostro Vicerè, di cui ora bisogna brevemente ragionare.

CAPITOLO II

Del Governo di D. Giovanni Alfonso Pimentel d'Errera Conte di Benavente ; e delle contese, ch'ebbe con gli Ecclesiastici per la Bolla di Papa Gregorio XIV , intorno all'immunità delle Chiese

Giunto che fu il Conte in Napoli a' 6 aprile di quest'anno 1603 mostrò un'applicazion continuata alla retta amministrazione della giustizia, e vedendo rilasciata la disciplina, riprese il rigore, e con serietà attese ad emendare gli abusi de' Tribunali, a sollecitar le cause criminali, ordinando di più, che tutti i processi, che marciavano ne' Tribunali delle province venissero in Napoli, dove sollecitamente fossero spediti i rei, o con morte, o col remo, o con altri castighi a proporzione de' delitti, de' quali erano convinti. Fu rigido e severo in punir i delinquenti, e sovente non faceva valer loro il refugio alle Chiese, cotanto era cresciuto il numero de' ribaldi, siccome tuttavia cresceva quello delle Chiese, onde con facilità si ponevano in salvo: ciò che accese nuove contese con Roma per l'immunità di quelle, di cui più innanzi saremo a favellare.

Ma non meno la perduta disciplina, che le gravezze, che soffrivano i nostri Regnicoli, e le continuate scorrerie de' Turchi, non meno che de' banditi, tennero occupato il Conte di Benavente in cure sollecite e moleste. Per essere il Regno stato premuto tanto con sì spessi e grossi donativi, e gravose tasse, mal si soffrivano poi nuove gravezze e nuovi dazj. Non finivan mai i bisogni della Corte e le richieste di nuovi soccorsi; onde bisognò finalmente venire all'imposizione d'una nuova gabella sopra i frutti. Dispiacque notabilmente alla plebe sì scandalosa gabella, ed ancorchè soffrisse il giogo, non lasciava internamente d'abborrirlo e di scuoterlo sempre che le ne veniva l'opportunità. Avvenne, che un Gabelliere avea fatto dipingere nella casetta ove riscoteva il dazio, posta al Mercato, otto Santi Protettori della Città: ciò parendo disdicevole al Vicario Generale della Diocesi, volendo egli farsi giustizia colle sue mani, mandò un suo Ministro con comitiva, con ordine di cancellar quelle Immagini con molto rumore e strepito. Accorse per ciò ivi molta gente, ed in un tratto si vide quella contrada piena di popolo: alcuni fomentati da' mal contenti, credendo che il tumulto fosse per levar via la gabella, si lanciarono sopra quella stanza per rovinarla da' fondamenti, affinchè si togliesse ogni vestigio di sì abbominevol dazio. Fu il tumulto sì strepitoso, che se la vigilanza del Vicerè non faceva tosto accorrer gente per quietarlo, sarebbe certamente degenerato in una aperta rivoluzione. Si quietò finalmente, ed il Vicerè volle prender severo castigo de' Capi principali dell'eccesso, e sopra ogni altro, dell'impertinente Ministro mandato dal Vicario, cagione di tutto il disordine: si opposero a ciò gli Ecclesiastici con attaccar brighe di giurisdizione; ma il Vicerè castigò severamente i Capi, e mandò in galea il Ministro del Vicario.

Una nuova gabella imposta sopra il sale cagionò pure dell'amarezze e disturbi; ma sopra tutto era intollerabile l'uso delle monete , tanto avidamente tosate da' Monetarj, che impedivano notabilmente il commercio: fu la città per sollevarsi, ma vi diede il Conte tosto riparo, con lasciar correre le zannette (moneta, il cui valore era di mezzo carlino) giuste o scarse che fossero, e che l'altre monete, nuove o vecchie, si ricevessero a peso per supplire con ciò alle tosate, e per togliere a' Monetarj l'occasione di tosarle per l'avvenire.

Le scorrerie de' Corsari Turchi nelle marine di Puglia non meno frequenti che dannose, saccheggiavano, predavano e riducevano in ischiavitù non picciol numero di persone. Essi s'aveano fatto asilo la Città di Durazzo nell'Albania, lontana dal Capo d'Otranto non più che cento miglia. Per isnidarli da quel luogo, fu risoluto doversi impiegar ogni opera per distrugger Durazzo. Ne fu data la cura al Marchese di S. Croce, il quale colla squadra delle nostre galee, giunto nei lidi d'Albania, e poste a terra le soldatesche ed artiglierie, superò a viva forza il Castello di Durazzo, diede il sacco alla Città, la distrusse, e ciò che vi rimase, fece divorar dalle fiamme.

I banditi dall'altra parte non lasciavano d'infestar le Calabrie: vi accorse D. Lelio Orsini per far loro argine, ne dissipò buona parte, ma non gli estinse affatto; imperocchè essendo notabilmente cresciuti, provvidero alla loro salvezza, ritirandosi altrove tra monti inaccessibili.

Ma non meno fastidiose e moleste furono le contese, ch'ebbe il Conte di Benavente a sostenere con gli Ecclesiastici per cagion d'immunità pretesa, non meno per le loro persone, che per le Chiese. La gran pietà del Re Filippo III, e la poca sua applicazione al Governo de' suoi Regni, diede lor animo di far nuove sorprese, e sopra tutto di far valere nel Regno la Bolla di Gregorio XIV stabilita intorno all'immunità delle Chiese. Si resero a questi tempi sopra noi maggiormente animosi, dal vedere, che in quella famosa contesa insorta tra il Pontefice Paolo V colla Repubblica di Venezia, sopra la quale tanto si è disputato e scritto, il Re Filippo pendeva dalla parte del Pontefice; e non ostante, che la causa di quella Repubblica doveva esser comune a tutti i Principi, seppero far sì, che il Re, non solo s'impiegasse a trattar per essi vantaggioso accordo, spedendovi a tal effetto in Venezia D. Francesco di Castro con carattere di suo Ambasciadore; ma l'indussero a comandare al Conte di Benavente nostro Vicerè, e al Conte di Fuentes Governador di Milano, che in ogni caso assistessero alla difesa della Sede Appostolica; onde da Napoli il Vicerè mandò a quest'effetto in Lombardia ventidue insegne di fanteria sotto il comando di Giantommaso Spina, ed altre ventitrè sotto il Marchese di S. Agata. Quindi è, che fra la turba di coloro che scrissero in questa causa a favor del Pontefice contra il P. Servita, Fr. Fulgenzio e Giovanni Marsilio Teologi di quella Repubblica, ve ne siano molti Spagnuoli, e de' nostri ancora, e tra questi vi fu anche il Reggente di Ponte , riputato a torto fra noi il più forte sostenitore della regal giurisdizione.

Avea Papa Gregorio nel 1591 pubblicata una Bolla, nella quale derogando alle Bolle di Pio e di Sisto V, ristrinse il numero de' delitti incapaci d'immunità, e quel che più era insopportabile, volle, che i Giudici Ecclesiastici avessero a giudicare della qualità de' delitti, e quali fossero gli eccettuati, affin di poter estrarre i delinquenti dalle Chiese; e che il Magistrato Secolare non ardisse d'estrarli, se non con espressa licenza del Vescovo; da poi che avrà costui giudicato d'essere i rei immeritevoli del confugio, per aver commessi delitti eccettuati dalla Bolla.

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