Massimo Azeglio - Dell'Emancipazione civile degl'Israeliti
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Dell'Emancipazione civile degl'Israeliti
A MIO FRATELLO ROBERTO
Tu ti adopri in Piemonte onde ottenere l'emancipazione degli Israeliti, scopo a cui tende questo mio opuscolo: m'è caro perciò porvi in fronte il tuo nome, già benedetto da altri derelitti; ed altrettanto lo tengo a felice presagio. Siccome ad avverarlo non verrà meno certamente l'opera tua, possa così concorrervi quella più potente de' Principi Italiani che già han posto mano ad abbattere altre non meno anticristiane ingiustizie.
Tuo di cuore MASSIMO D'AZEGLIO.Roma, 8 Decembre 1847.
PENSIERI PRELIMINARI
Io interrogo il mio lettore, sia egli debole o potente, grande o piccolo, principe o suddito, cattolico o protestante, e dico: crede egli vero o falso, utile o dannoso all'umana società il precetto di carità universale, d'amor del prossimo, racchiuso nell'epigrafe che ho posta in fronte del presente opuscolo?
Se lo crede falso e dannoso, chiuda il mio libretto; non ho altro da aggiungere.
Se lo crede utile e vero, gli domando se gli è avviso che questo precetto, nel modo istesso che è insegnato dal Vangelo ed accettato egualmente dalla fede e dalla ragione, sia stato preso per norma, ne' diciotto secoli che conta il Cristianesimo, dai legislatori, dai principi, dai potenti, dalle moltitudini, da quanti infine ebbero o si tolsero potestà di scriver leggi, e stabilire ordini che reggessero l'umana famiglia?
La carità, l'amor del prossimo, il non fare agli altri quel che non si vorrebbe fosse fatto a noi, primo fra i precetti de' popoli cristiani dopo quello che si riferisce alla divinità, ha esso esistito ed esiste in parole, o è applicato ai fatti?
E se più che altrimenti esistesse in parole, quali ne sono le cause? quali le conseguenze?
E se queste conseguenze fossero tristi e dolorose per tutti, non è egli egualmente dovere ed interesse di tutti il cercare di sottrarvisi, combattendo le loro cause?
Queste interrogazioni che dirigo al lettore, le ho fatte soventi volte a me medesimo: e guardando al passato ed al presente, alle leggi, alle consuetudini, agli usi della civiltà cristiana in tutta la sua durata, m'è sembrato trovarvi una frequente e flagrante violazione del suo principio; di vederla travagliarsi, soffrire, lacerarsi, ed andar a rischio di perdersi per un sillogismo falsato, del quale la maggiore e la minore non avean che fare praticamente colla conseguenza.
E lasciando molti altri casi che non fanno alla questione che intendo trattare, ho trovato, a cagion d'esempio, che sul fatto degli Israeliti la civiltà cristiana faceva questo strano sillogismo.
La fede cristiana mi ordina di amare senza distinzione tutti gli uomini.
Gli Ebrei sono uomini.
Dunque io li odio, li perseguito e li tormento.
Lo scopo del breve scritto che offro al pubblico, è diretto a cooperare, per quanto me lo concedono le mie povere forze, alla restaurazione del detto sillogismo; a rimetterne i termini nella loro vera e razionale relazione.
Non avendo potestà di far molto, mi è sembrato dovere l'adoprarmi almeno come potevo, onde fra le tante applicazioni che rimangono a farsi del principio cristiano, si venisse intanto a questa. Quanto alle altre, facciamoci animo: le menti ed i cuori vengono ogni dì più sentendone l'importanza e il bisogno.
La civiltà cristiana presenta nel lasso degli ultimi cent'anni un fatto che apre il campo a gravi meditazioni. Nell'ultima metà del secolo scorso, essa parve rinnegare in massa il suo principio, e mettersi incerta ed anelante in traccia di principj nuovi.
La rivoluzione, le sue guerre, quelle di Napoleone, l'abuso della vittoria che l'avea prostrato, il dispotismo senza esempio stabilito dai vincitori, la reazione ora aperta ora segreta e sempre travagliosa de' popoli, un mal'essere, un'irritazione generale; ecco ciò che essa trovava.
Sotto fallaci apparenze d'una civiltà superficiale, non era forse mai stato tempo in cui la politica avesse più intimamente rinnegato il principio cristiano.
Ma la dura lezione non è stata senza frutto.
Sembra che la Società si venga avvedendo che il mondo morale come il materiale è retto da grandi ed elementari leggi, e che in esse soltanto può trovar ordine e riposo; che il travagliarsi per trovar modi di reggimento, istituzioni, sistemi ec., è opera gettata, se gli uomini non si convincono dell'importanza ed utilità di dette leggi, e non le seguono; e fra queste, la prima è quella della carità e dell'amor del prossimo. Questo convincimento già trionfa nella teoria. Quindi la tendenza alla restituzione delle nazionalità.
Perchè una nazione non deve imporre ad un'altra quel giogo che non vorrebbe per sè.
Quindi lo sviluppo del principio del diritto comune, le istituzioni, le leggi d'uguaglianza civile.
Perchè un principe non deve torre ad altri il suo diritto, come non amerebbe che gli fosse tolto il suo ec. ec.
Accettato sinceramente il principio in teoria, si può argomentare che non siam molto discosti della sua applicazione.
Affrettiamola coi voti e coll'opera, e noi Cristiani intanto che ci travagliamo onde ottener giustizia per noi, rendiamola agli altri; e non tormentiamo gl'Israeliti come non vorremmo esser noi tormentati ed oppressi. A chi, sorridendo, m'interrogasse, se io intendo rifare il catechismo pe' fanciulli; io risponderei che, se mi bastassero le forze, vorrei non tanto far questo, quanto trovar modo onde quel catechismo che gli uomini appresero quand'eran fanciulli, lo rammentassero talvolta allorchè, fatti adulti, vien loro data potestà di promulgar leggi e farle eseguire, e sta in essi il condurre gli uomini alla felicità, come l'immergerli nella sventura.
L'emancipazione degli Israeliti, il termine di quella lunga e dolorosa serie di patimenti, d'oltraggi e d'ingiustizie che ebbero a soffrire per tanti secoli, non in vista del principio cristiano ma invece colla manifesta sua violazione, in conseguenza della cecità, de' pregiudizi, dell'ignoranza, e talvolta, purtroppo! in virtù di cause alle quali una scusa è ancor più irreperibile; l'emancipazione degli Israeliti è un fatto oramai incominciato, e che per la condizione de' tempi si può virtualmente tener per compiuto.
A Pio IX era serbata questa santa e sapiente manifestazione di giustizia e di carità, che si deve certamente annoverare fra i più importanti e benefici atti del suo pontificato, come quello che consacra il principio atto più d'ogni altro a mantenere la concordia e la pace tra gli uomini, e condurre al trionfo della verità: il principio della tolleranza.
La tolleranza, come tutte le massime vere, utili e sante, ha avuto ed ha purtroppo ancora i suoi oppugnatori; perchè essa non serve nè la superbia, nè gli odj, nè la violenza, nè la cupidigia, e toglie anzi agli uomini il poter dare sfogo a questi loro perversi appetiti: e coloro che appunto vollero aver piena libertà di sfogarli, conobbero non aver altro modo onde coonestarli e nasconderne la bruttezza, se non col coonestare le loro passioni coll'apparenza dell'amore del vero e dello zelo per la religione, e professare l'intolleranza.
E questi furono tra i nemici della tolleranza i più perversi. Altri ve ne furono di meno perversi, e forse talvolta (tanto è inscrutabile l'umana coscienza!) incolpabili; quelli dico, che opprimendo, perseguitando ed usando violenza a chi nella fede e nel culto dissentisse da loro, non lo fecero per nessuna rea passione, ma per la falsa opinione che fosse questa la miglior via onde procurare il trionfo ed il regno delle loro opinioni e della verità, ed opera meritoria e grata all'Onnipotente, il punire coloro che non la professassero.
Gli uni e gli altri poi combatterono i loro Avversari, amici e cultori della tolleranza, coll'accusa d'essere o nemici o indifferenti alla fede che pure apparentemente professavano; ed ebbero spesso sovr'essi il vantaggio che procura presso le moltitudini una fervente e clamorosa espressione di zelo per le cose più sante ed auguste, e spesso li ridussero a ritirarsi dal campo e tacere, pel timore d'essere creduti appunto nemici o indifferenti a queste sante ed auguste cose.
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