Antonio Ghislanzoni - Racconti e novelle
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Quella scoperta produsse un cataclisma. Il Minassi improvvisò sulle rivoluzioni delle voci un erudito discorso che produsse la più viva commozione nella scolaresca; ma la contessa Bavoso, informata della metamorfosi che si era operata nel mio organo, mi avvertì per lettera che non intendeva continuarmi il sussidio, consigliandomi al tempo stesso di far ritorno al paese dove la mia voce da basso profondo sarebbe riuscita opportunissima per richiamare dai pascoli le giovenche. A quella lettera, dissuggellata dall'infida Savina, era aggiunto un poscritto in pessima calligrafia, che diceva testualmente: Dopo quelo che tano talliato, non sperare mai più nel mio amore; io sposerò quest'autunno il carozziere Pacicco.
Che fare? che tentare? – Dietro ordine della contessa, mio padre venne a Milano, mi colmò di rimproveri e mi intimò di seguirlo al paese. All'ora del mio arrivo, una ventina di villani stavano sulla piazza attendendomi. – Immaginate la mia vergogna, allorquando una voce acuta, emergendo dal crocchio, annunziò il mio ingresso colle parole: « In pèe tucc! à l'è scià el campanin! » 2 2 Alzatevi tutti; è arrivato il campanile!
Ed ecco in qual modo compensavano quei bifolchi la buona disposizione che io aveva manifestata di concorrere coi miei guadagni alla erezione del campanile! – Le buone intenzioni non hanno sconto sul mercato della vita.
Non volli più uscire di casa – mi resi invisibile. Io attendeva ai lavori dell'orto ed al governo della stalla, mutolo sempre e ingrugnato. Mio padre temendo che io cadessi ammalato, andò a consultarsi col veterinario.
Un giorno l'organista del paese si recò a visitarmi – Pirletta, mi disse – eppure io non so capacitarmi che la tua bella voce sia proprio svanita! Se ci provassimo… così per spasso?.. Farò trasportare nella tua camera da letto la mia spinetta… Ricomincieremo dalle scale – e chi sa? – le scale conducono in alto…
Che volete? mi lasciai vincere dalla tentazione, e ripresi, colla scorta del dabbene organista, gli esercizi del solfeggio. La mia voce da basso non era delle più ingrate; io studiava con moderazione, senza violentare la natura, e apprendeva, ciò che i professori di Milano avevano sdegnato insegnarmi, i principii fondamentali della musica. Io comprendeva i miei progressi, e il mio cuore si riapriva alla speranza, la mia mente si irradiava di nuove illusioni.
Dopo due anni di studi regolari ed indefessi, l'organista mi avvertì solennemente che a lui non restava più nulla da insegnarmi, a me più nulla da apprendere. – Sei maturo, mi disse; non ti resta che salire il bosco e fare la tua galletta .
Mio padre mi fornì cinquanta lire e la sua benedizione perchè andassi a Milano in cerca di una scrittura. Il parroco, il sindaco, il veterinario e l'ottimo organista ingrossarono il mio peculio di qualche spicciolo e di molti consigli. – Uscii dal paese due ore prima dell'alba, e volgendomi al famiglio che aveva attaccata la bestia al biroccino: tornerò fra cinque o sei anni, gli dissi; e quando il campanile sarà compiuto, andrò lassù a sputar sulla testa di quei buffoni che si fecero giuoco di me.
Ma in cielo non era scritto che io donassi un campanile alla ingrata mia patria. Prima di ottenere una scrittura, rimasi a Milano due anni – e furono due anni di patimenti, di umiliazioni, di angoscie indescrivibili. Io faceva regolarmente ogni giorno il giro di tutte le agenzie teatrali; i corrispondenti mi davano delle promesse e sempre mi congedavano col ritornello: lasciatevi vedere ! – All'indomani, quando io mi presentava, fingevano di non vedermi.
I miei abiti si aprivano sui gomiti e parevano ricambiare dei sorrisi alle scarpe che mostravano i denti. Non vi parlo dei miei lunghi digiuni, delle notti passate all'aria aperta o sulle panche del caffè Martini. I miei amici erano una dozzina di cantanti in perenne disponibilità – i quali mi confortavano affermando che gli agenti teatrali erano una masnada di assassini, il pubblico una massa di imbecilli, e gli artisti più lautamente pagati una camorra di intriganti privi di voce e talento.
Finalmente (e in quell'istante vidi aprirsi il paradiso) un agente teatrale mi invita per lettera a recarmi premurosamente da lui. – Accorro ansante dalla gioia – precipito nella sala d'uffizio e interrogo collo sguardo il mio destino.
L'agente era un certo Cinguetta, un uomo di sinistro aspetto e di fama perduta; eppure, all'idea ch'egli intendesse offrirmi una scrittura, mi parve un cherubino.
– Sei tu disposto – mi chiese con brusca amorevolezza – a fare una campagnata di venti giorni cantando nel Nabucco la parte di Zaccaria?
– Se le pare… se lei crede…
– Si tratta, come dissi, di una campagnata – dunque molta allegria, grandi applausi e pochi soldi… non è vero? Gli esordienti – regola generale – non hanno diritto a compenso, e dovrebbero anzi, a rigore di legge, sborsare all'impresario una somma, pel grave rischio a cui questi va incontro esponendo sulle scene un artista sconosciuto e di dubbio talento. Ma io ho fede in te; so che possiedi una bella voce e conosco del pari le tue strettezze. Vedrai dal presente contratto che ho cercato di aiutarti – apponi dunque la tua firma, e domani partirai per Arona, ove, non dubito, farai onore alla mia agenzia.
Così parlando, il Cinguetta mi porse la scrittura che mi obbligava a cantare per una ventina di rappresentazioni al teatro di Arona, a recarmi alla piazza in tempo debito onde intervenire alle prove di cembalo e di orchestra, nonchè a provvedermi a mie spese del basso vestiario in perfetto costume . In compenso delle mie prestazioni, l'impresario mi avrebbe pagata la somma di lire sessanta, suddivisa in quattro rate, giusta le consuetudini teatrali, restando a mio carico le spese di viaggio e la provvigione dei cinque per cento devoluta al mediatore.
Naturalmente, apersi il labbro per muovere qualche obiezione; ma il Cinguetta, strappandomi il foglio dalle mani e facendo atto di lacerarlo: – tutti di uno stampo! esclamò con mal piglio – quando siete a spasso , mille suppliche, mille transazioni; – vi si offre una scrittura, eccovi tosto colle grandi pretese! – Figliuol mio… non faremo nulla. Non ho che a battere il suolo coi tacchi per veder sorgere una legione di bassi profondi, pronti e disposti a cantare per l'amore dell'arte!
Non era il caso di discutere – io segnai la scrittura con mano tremante, la piegai, la chiusi nei taschetti del soprabito e atterrito della mia nuova situazione, presi commiato dall'agente teatrale ringraziandolo colla voce ed imprecandogli col cuore. Il Cinguetta mi accompagnò fino alla porta, e come uomo ispirato subitamente da una idea luminosa:
– A proposito, mi disse; non sarebbe bene che noi regolassimo tosto i nostri conti? di tal guisa ti risparmieresti l'incomodo e la spesa di spedirmi il danaro per la posta… La somma che mi devi è tanto meschina…
Io compresi che si trattava della provvigione. Non aveva indosso la somma di dieci soldi, e la mia mente già cominciava ad affannarsi nella ricerca di uno spediente qualunque, pel quale mi fosse dato di trasferirmi alla piazza. Esposi francamente al Cinguetta la mia triste posizione; gli feci capire che, aiutandomi la fortuna, lo avrei più tardi compensato largamente. Le mie parole esprimevano la più viva commozione.
– Non importa! – disse l'agente con un suo risolino di ipocrita benevolenza – io amo gli artisti e so investirmi delle loro circostanze… Se non puoi darmi danaro… vedi… sarei anche disposto ad accettare qualche segno di riconoscenza… per esempio… vediamo un poco… Così parlando, portò la mano alla catenella di argento che mi scendeva nel taschino del gilet , e ne trasse fuori un gramo orologio di argento, unico ricordo di mia madre che io aveva religiosamente conservato fino a quel giorno in onta delle urgenze più calamitose. Quel Cinguetta aveva la mano così disinvolta, e la mia resistenza era così debole e impacciata, che l'orologio in un attimo divenne sua preda. Io finii col ringraziarlo di avere accettato in benemerenza dei suoi grandi favori, un dono così meschino.
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