Volodyk - Paolini2-Eldest
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«Sì, ledy Furianera. Ci ha promesso della buona terra se uccidevamo i suoi nemici. Ma ci ha ingannati. Il suo sciamano dai capelli di fuoco, Durza, ha piegato le menti dei nostri comandanti e ha costretto le nostre tribù a collaborare, come non è nostra usanza. Quando lo abbiamo capìto, nella montagna cava dei nani, le Herndall, le madri che ci governano, hanno deciso di inviare la mia compagna presso Galbatorix a chiedere perché ci aveva usati così.» Garzhvog scosse la poderosa testa. «Non è mai tornata. I nostri arieti migliori sono morti per Galbatorix, e lui ci ha abbandonati come una lama spezzata. È un drajl, un infame traditore senza corna. ledy Furianera, siamo rimasti in pochi, ma combatteremo con voi, se lo vorrai.»
«A quale prezzo?» chiese Nasuada. «Le tue Herndall devono volere qualcosa in cambio.»
«Sangue. Il sangue di Galbatorix. E se l'Impero cade, chiediamo di darci delle terre, terre per vivere e crescere, terre per evitare altre guerre in futuro.»
Eragon intuì la decisione di Nasuada dalla sua espressione ancor prima che parlasse. E lo stesso dovette capire Jòrmundur, perché si sporse verso di lei e mormorò: «Nasuada, non puoi farlo. È contro natura.» «La natura non può aiutarci a sconfiggere l'Impero. Abbiamo bisogno di alleati.»
«Gli uomini diserteranno piuttosto di combattere fianco a fianco con gli Urgali.»
«Questo ostacolo si può aggirare. Eragon, gli Urgali terranno fede al patto?»
«Soltanto finché avremo un nemico comune.»
Con un brusco cenno del capo, Nasuada alzò di nuovo la voce: «D'accordo, Nar Garzhvog. Tu e i tuoi guerrieri potete accamparvi lungo il fianco orientale del nostro esercito, lontani dal corpo principale, e in seguito discuteremo i termini dell'accordo.»
«Ahgrat ukmar» ringhiò il Kull, battendosi i pugni sulla
fronte. «Sei una saggia Herndall, ledy Furianera.»
«Perché mi chiami così?»
«Herndall?»
«No, Furianera.»
Garzhvog emise un rauco gorgoglio che Eragon interpretò come una risata. «Furianera è il nome che abbiamo dato a tuo padre per come ci inseguiva negli oscuri tunnel della montagna cava e per il colore della sua pelle. Tu, che sei sua figlia, meriti lo stesso nome.» Con queste parole, il Kull si volse e si allontanò a grandi passi dal padiglione. Alzandosi, Nasuada proclamò: «Chiunque attacchi un Urgali verrà punito come se avesse attaccato un compagno umano. Che il mio ordine venga diffuso in ogni compagnia.»
Aveva appena finito di parlare, quando Eragon notò re Orrin arrivare trafelato, il lungo mantello che gli svolazzava sui polpacci. Quando fu abbastanza vicino, gridò: «Nasuada! È vero che ti sei incontrata con un Urgali? Che cosa intendevi fare, e perché non sono stato avvertito prima? Io non...»
Il re fu interrotto da una sentinella che emerse dalla moltitudine di tende grigie, gridando: «Un uomo a cavallo, mandato dall'Impero!»
Re Orrin interruppe subito la sua protesta per seguire Nasuada che correva verso l'avanguardia dell'esercito, seguita da almeno un centinaio di soldati. Piuttosto che rimanere bloccato dalla folla, Eragon montò in groppa a Saphira e si fece portare da lei a destinazione.
Quando Saphira si fermò vicino al terrapieno, le trincee e le file di pali acuminati che proteggevano la prima linea dei Varden, Eragon vide un soldato solitario avanzare al galoppo sfrenato lungo la terra di nessuno. I rapaci si abbassarono in volo per vedere se era arrivato l'antipasto del banchetto imminente.
Il soldato tirò le redini del suo nero stallone a trenta iarde dalle fortificazioni, fermandosi a una ragionevole distanza di sicurezza dai Varden, e gridò: «Rifiutando la generosa offerta di resa di re Galbatorix, avete scelto di morire. Non ci sarà più alcun negoziato. La mano tesa in segno di amicizia si è trasformata in un pugno di ferro! Se qualcuno di voi rispetta ancora il nostro legittimo sovrano, l'onnipotente, l'onnisciente re Galbatorix, che fugga! Nessuno sopravviverà quando l'esercito imperiale provvedere a far piazza pulita in Alagaésia di ogni miscredente, traditore e sovversivo. E per quanto questo addolori il nostro sovrano, perché sa che la maggior parte di questi atti di ribellione sono stati istigati da capi invidiosi e dissidenti, puniremo com'è giusto il riottoso territorio noto come Surda per restituirlo alla benevola guida di re Galbatorix, lui, che si sacrifica giorno e notte per il bene del suo popolo. Perciò fuggite, vi dico, o subirete il destino del vostro araldo.»
Il soldato slegò i cordoni di una sacca di tela che teneva appesa al fianco ed estrasse una testa mozzata. La scagliò in aria e la guardò cadere fra i Varden; poi fece voltare lo stallone, gli piantò gli speroni nei fianchi e tornò al galoppo verso la massa scura dell'esercito di Galbatorix.
«Devo ucciderlo?» chiese Eragon.
Nasuada scosse il capo. «Avremo presto la nostra vendetta. Non violerò la sacralità dei messaggèri, come ha fatto l'Impero.»
«Come...» Eragon trasalì di sorpresa e si afferrò al collo di Saphira per non cadere di sella, quando la dragonessa si impennò, piantando le zampe davanti sulla terra livida e compatta del bastione. Spalancando le fauci, Saphira lanciò un lungo, profondo ruggito, come aveva fatto Garzhvog: ma questo era una sfida aperta ai suoi nemici, un avvertimento dell'ira che avevano suscitato e un appello per tutti coloro che odiavano Galbatorix.
Il suono della sua voce tonante spaventò tanto lo stallone da farlo scartare. Il cavallo scivolò sul terreno bollente e cadde. Il soldato fu sbalzato di sella e piombò su una vampa di fuoco verde che eruttò proprio in quel momento. Lanciò un solo grido, così orribile che fece arricciare il cuoio capelluto di Eragon. Poi calò un silenzio di morte. Gli uccelli cominciarono a scendere.
I Varden acclamarono Saphira. Perfino Nasuada si concesse un breve sorriso. Poi battè le mani e disse: «Attaccheranno all'alba, presumo. Eragon, riunisci il Du Vrangr Gata e preparati all'azione. Ti farò avere ordini entro un'ora.» Cingendo le spalle di re Orrin, Nasuada lo ricondusse gentilmente verso il centro dell'accampamento. «Sire, bisogna prendere delle decisioni. Ho in mente un certo piano, ma occorre...»
Che vengano, disse Saphira. La punta della sua coda fremeva come quella di un gatto appostato davanti alla tana di un topo. Bruceranno tutti.
Pozione di strega
La notte era calata sulle Pianure Ardenti. La cappa di fumo opaco oscurava la luna e le stelle, sprofondando la terra in una fitta tenebra, interrotta soltanto dagli improvvisi bagliori dei fuochi di torba e dalle migliaia di torce accese nei due schieramenti opposti. Dalla postazione avanzata di Eragon, l'esercito imperiale sembrava un denso tappeto di braci rosseggianti, vasto quanto una città.
Quando ebbe finito di allacciare l'ultimo elemento della corazza di Saphira sulla sua coda, Eragon chiuse gli occhi per concentrarsi sul contatto mentale con gli stregoni del Du Vrangr Gata. Aveva imparato a localizzarli in un istante; la sua vita dipendeva dalla rapidità e dalla precisione con cui riusciva a comunicare con loro. A loro volta, gli stregoni avevano imparato a riconoscere il contatto della sua mente per non bloccarlo quando li chiamava in aiuto. Eragon sorrise e disse: «Ciao, Orik.» Aprì gli occhi e vide il nano arrampicarsi sul basso poggio roccioso su cui erano appostati lui e Saphira. Orik, in perfetta tenuta da combattimento, impugnava il suo arco di corna di Urgali nella mano sinistra.
Accovacciandosi al suo fianco, Orik si asciugò la fronte e scosse la testa. «Come sapevi che ero io? La mia mente era protetta.»
Ogni coscienza proietta una sensazione diversa, spiegò Saphira. Così come due voci non hanno mai lo stesso timbro. «Ah.»
Eragon chiese: «Come mai qui?»
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