Mikhail Bulgakov - Il Maestro e Margherita
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Non appena gli autisti di tre macchine videro un passeggero che si affrettava verso di loro con una cartella voluminosa, tutti e tre gli filarono via vuoti sotto il naso, lanciandogli occhiate cariche d’odio.
Sorpreso da questa circostanza, il ragioniere rimase a lungo impalato, cercando di spiegarsene il significato.
Dopo circa tre minuti arrivò una macchina vuota, e il volto dell’autista si storse subito, non appena vide il passeggero.
— È libero? — chiese Vasilij Stepanovič, dando sbalordito un colpo di tosse.
— Faccia vedere il denaro, — rispose con rabbia l’autista, senza guardare il passeggero.
Sempre piú sorpreso, il ragioniere strinse la preziosa borsa sotto l’ascella, trasse dal portafoglio un biglietto da dieci rubli e lo mostrò all’autista.
— Non vado! — disse l’altro laconicamente.
— Mi scusi… — cominciò il ragioniere, ma l’autista lo interruppe:
— Ha pezzi da tre rubli?
Del tutto sconcertato, il ragioniere trasse fuori dal portafoglio due pezzi da tre rubli e li mostrò all’autista.
— Salga, — gridò quello e diede al tassametro un colpo tale che quasi lo fracassò. — Andiamo.
— Che c’è, non ha il resto? — chiese timido il ragioniere.
— Ho la tasca piena di spiccioli! — urlò l’autista, e nel retrovisore si specchiarono i suoi occhi iniettati di sangue. — È la terza volta che mi capita oggi. Ma anche agli altri è successa la stessa cosa. Un figlio di cane mi dà dieci rubli, io gli do quattro e cinquanta di resto. Scende giú, quel maiale! Cinque minuti dopo guardo: invece del biglietto da dieci mi trovo un’etichetta dell’acqua minerale! — qui l’autista pronunciò alcune parole sconce. — Un altro alla Zubovskaja. Dieci rubli. Gli do tre rubli di resto. Se ne va. Metto la mano nel borsellino, ne esce un’ape, zac nel dito! Te lo… — l’autista inserí di nuovo delle parole sconce. — E niente soldi. Ieri, in quel Varietà, — (parole sconce), — un porco di prestigiatore ha dato uno spettacolo con biglietti da dieci rubli, — (parole sconce)…
Il ragioniere ammutolí, si rannicchiò, e prese un’aria come se sentisse per la prima volta la parola «Varietà», ma pensava: «Accidenti!»…
Giunto a destinazione, pagò felicemente la corsa, entrò nell’ufficio e si diresse lungo il corridoio verso l’ufficio del direttore, ma cammin facendo capí che il momento non era scelto bene. Nella cancelleria della Commissione per gli spettacoli regnava la baraonda. Accanto al ragioniere passò di corsa un’inserviente con il fazzoletto ormai sulla nuca e gli occhi sbarrati.
— Non c’è, non c’è, non c’è! Non c’è, carissimi! — gridava rivolgendosi a chi sa chi, — la giacca e i pantaloni ci sono, ma nella giacca non c’è nessuno!
Scomparve dietro una porta, e subito si udí un rumore di vasellame frantumato. Dalla segreteria corse fuori il direttore della prima sezione della Commissione, che il ragioniere conosceva, ma era in uno stato tale che non riconobbe il ragioniere e scomparve come se lo portasse il vento.
Scosso da tutto questo, il ragioniere arrivò alla segreteria che fungeva da anticamera all’ufficio del presidente della Commissione, e qui il suo stupore fu definitivo.
Dietro la porta chiusa dell’ufficio si udiva una voce minacciosa, che senza dubbio apparteneva a Prochor Petrovič, presidente della Commissione. «Sta dando un cicchetto a qualcuno?», pensò lo sconcertato ragioniere, e voltandosi vide dell’altro: nella poltrona di cuoio, con la testa buttata all’indietro sullo schienale, singhiozzando senza ritegno, con un fazzoletto bagnato in mano, stava distesa allungando le gambe fin quasi a metà della stanza, la segretaria personale di Prochor Petrovič, la bellissima Anna Ričardovna.
Tutto il mento della donna era imbrattato di rossetto sulle guance di pesca strisciavano giú dalle ciglia neri torrenti di rimmel.
Vedendo entrare qualcuno, Anna Ričardovna balzò in piedi, si precipitò verso il ragioniere, lo afferrò per i risvolti della giacca, e cominciò a scuoterlo e a gridare:
— Grazie a Dio! C’è almeno una persona coraggiosa! Tutti sono scappati, tutti hanno tradito! Venga, venga da lui, io non so che cosa fare! — e, continuando a piangere, trascinò il ragioniere nell’ufficio.
Entrato che fu, per prima cosa Vasilij Stepanovič si lasciò sfuggire di mano la cartella, e tutti i pensieri nella sua testa andarono a gambe all’aria. E bisogna pur dire che ne aveva ben donde.
Dietro all’enorme scrivania dal massiccio calamaio sedeva un vestito vuoto, che faceva scorrere sulla carta una penna asciutta, non intinta nell’inchiostro. Il vestito era completo di cravatta, la stilografica spuntava dal taschino, ma sopra il colletto non c’era né collo né testa, cosí come dai polsini non uscivano le mani. Il vestito era immerso nel lavoro e non si accorgeva affatto del pandemonio che regnava intorno. Sentendo che qualcuno era entrato, il vestito si buttò contro lo schienale, e sopra il colletto risuonò la voce di Prochor Petrovič, ben nota al ragioniere:
— Che c’è? C’è pur scritto sulla porta che non ricevo.
La bellissima segretaria diede uno strillo e, torcendosi le mani, gridava:
— Vede? Vede? Non c’è! Non c’è! Lo faccia tornare!
Qualcuno infilò la testa nella porta dell’ufficio, lanciò un’esclamazione e schizzò via. Il ragioniere sentí che le gambe cominciavano a tremargli e si sedette sul bordo di una sedia, ma non dimenticò di raccattare la cartella. Anna Ričardovna gli saltellava intorno, tormentandogli la giacca, e gridava:
— Sempre, sempre glielo dicevo di non mandare la gente al diavolo! Ed ecco che ci è andato lui! — La bella segretaria corse verso la scrivania e con tenera voce musicale, un po’ nasale per il pianto, esclamò:
— Prosa! [16] Prosa = diminutivo di Pročhor.
Dov’è?
— Come sarebbe a dire «Prosa»? — chiese altero il vestito, sprofondando ancora di piú nella poltrona.
— Non mi riconosce! Neanche me riconosce! Lei capisce!… — singhiozzò la segretaria.
— La prego di non piangere nel mio ufficio, — disse, ormai adirato, il collerico vestito a righe, e con la manica trasse a sé una nuova pila di carte con l’evidente intenzione di firmarle.
— No, non posso vedere questo, non posso! — gridò Anna Ričardovna e corse in segreteria, e dietro a lei, come un proiettile, volò fuori anche il ragioniere.
— Si figuri, me ne sto lí seduta, — raccontava Anna Ričardovna, che rabbrividiva ancora dall’emozione e si era avvinghiata di nuovo alla manica della giacca del ragioniere, — ed ecco che entra un gatto. Nero, grasso come un ippopotamo. Io naturalmente gli grido «Passa via!» E lui via, ma al suo posto entra un grassone, anche lui con un muso che sembra di gatto, e mi fa: «Ma che modi sono, signorina, fare «pscttt» ai visitatori?!», e fila dritto da Prochor Petrovič. Io naturalmente gli corro dietro, e grido: «Ma è matto, lei?» e lui, sfacciato, va dritto da Prochor Petrovič e gli si siede davanti nella poltrona. Lui, sa… è una pasta d’uomo, ma un po’ nervoso. Si è arrabbiato, non lo discuto. Ha i nervi tesi, lavora come un negro, si è arrabbiato. «Lei perché entra senza farsi annunciare?», dice. E quell’insolente, si figuri, si stende nella poltrona e dice sorridendo: «Sono venuto da lei a parlare di un affaruccio». Di nuovo Prochor Petrovič si è arrabbiato: «Sono occupato». E l’altro, lei non ci crederà, risponde: «Lei non è affatto occupato»… Eh? Be’, qui naturalmente Prochor Petrovič ha perso la pazienza ed ha gridato: «Ma che roba è questa? Buttatelo fuori, il diavolo mi porti!» E l’altro, si figuri, sorride e dice: «Il diavolo se la porti? Perché no, d’accordo!» E zac! Non faccio in tempo a gridare, guardo, quello col muso da gatto non c’è piú, e lí c’è… c’è il vestito! Ueeeè!… — ululò Anna Ričardovna, spalancando la bocca che aveva perso ogni contorno.
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