— Vorrà dire un cane, dal momento che miagola.
— Un gatto, un gatto! Sono un gatto e piglio i topi! Anzi, anzi, ora che vi guardo bene: voi potete nascondervi quanto vi pare, ma a me non la fate. Siete topi, e finirete sui miei artigli! Miao! Maramao!
E in così dire Calimero spiccò un salto. I giornalisti fecero appena in tempo a infilarsi la penna stilografica nel taschino e a saltare sulla loro automobile.
Il povero Calimero ricadde per terra e rimase lì a miagolare disperatamente per tutto il resto della giornata, finché un passante pietoso lo raccolse e lo portò all'ospedale.
Un'ora più tardi uscì un'edizione straordinaria del «PERFETTO BUGIARDO». Su tutta la prima pagina campeggiava un titolone a caratteri di scatola che diceva:
«UNA NUOVA MANCATA IMPRESA DEL TENORE GELSOMINO:
CANTANDO NON RIESCE A FAR CROLLARE IL MANICOMIO!»
Il direttore del giornale si fregava le mani dalla contentezza:
— Una smentita coi fiocchi! Oggi venderò centomila copie per lo meno!
Invece poco dopo gli strilloni del «PERFETTO BUGIARDO» tornavano con pacchi di giornali invenduti sul braccio. Nessuno aveva voluto comprarne una copia.
— Ma come? — gridava il direttore. — Non una copia sola? Che cosa legge, la gente, il calendario?
— No, signor direttore, — gli rispose uno strillone più coraggioso degli altri. — Non legge più neanche quello. Cosa vuole che se ne faccia di un calendario sul quale il mese di dicembre si chiama agosto?
Forse la gente sentirà caldo solo perché il nome del mese è cambiato? Stanno succedendo cose grosse, signor direttore. La gente ci ha riso in faccia e ci ha consigliato di adoperare il nostro giornale per farci delle barchette di carta.
In quella entrò nell'ufficio il cane del direttore, che aveva fatto una scorribanda in città per conto suo.
— Micio, qua micio! — lo chiamò meccanicamente il padrone.
— Bau, bau! — rispose il cane.
— Cosa? Tu abbai?
Per tutta risposta il cagnolino scodinzolò di gioia e abbaiò con più forza.
— Ma è la fine del mondo! — esclamava il direttore, tergendosi il sudore dalla fronte, — è veramente la fine del mondo!
Era soltanto la fine delle bugie. Il crollo del manicomio aveva messo in circolazione tutte insieme centinaia di persone che dicevano la verità, cani che abbaiavano, gatti che miagolavano, cavalli che nitrivano, come vogliono le regole della zoologia e della grammatica: la verità dilagava come un'epidemia, e ormai la maggioranza della popolazione ne era contagiata. I commercianti stavano già cambiando i cartelli sulla loro merce.
Un fornaio staccò la propria insegna, sulla quale era scritto «CARTOLERIA», la rivoltò e con un pozzetto di carbone ci scrisse: «PANE». Subito una gran folla si radunò davanti al negozio ad applaudire.
Ma la folla più numerosa si era raccolta sulla grande piazza davanti alla reggia. La guidava Gelsomino, cantando, e a quel canto gente accorreva da tutti i quartieri e perfino dai paesi vicini.
Giacomone, dalle finestre della sua stanza, vide il grande corteo e batte le mani per la gioia.
— Presto, presto, — gridò per far accorrere i cortigiani, — presto, il mio popolo vuole che io pronunci un discorso. Guardate come si radunano per farmi festa.
— Ma che festa è? — si domandavano l'un l'altro i cortigiani.
Vi sembrerà strano, ma non sapevano ancora che cosa era successo.
Gli spioni invece di precipitarsi alla reggia a riferire, si erano precipitati a cercarsi un nascondiglio qualunque.
Nella reggia di rè Giacomone i gatti abbaiavano ancora: erano gli ultimi gatti infelici di tutto il regno.
Gelsomino con una canzone mette in fuga anche Giacomone
Il libro del destino, come sapete, non c'è. Non esiste nessun libro sul quale siano scritte le cose che succederanno: per scrivere un simile libro, bisognerebbe essere almeno almeno il direttore del «PERFETTO BUGIARDO». Dunque esso non esiste, e non esisteva nemmeno ai tempi di Giacomone.
È quasi un peccato. Se ci fosse stato, e se il povero sovrano in parrucca avesse potuto consultarlo, egli avrebbe letto alla data di quel giorno: «Oggi Giacomone non pronuncerà un discorso!» .
Infatti, mentre egli impaziente aspettava che i servi spalancassero le vetrate per comparire sul balcone, la voce di Gelsomino cominciò a produrre i suoi effetti: le vetrate si sfasciarono, con un rumore di cascata.
— Fate più attenzione, — gridò Giacomone ai suoi servi.
Gli rispose un altro «patatrac», dalla sua stanza.
— Questo è lo specchio! — gridò Giacomone. — Chi ha rotto il mio specchio?
Sua Maestà si guardò attorno, stupito che nessuno gli rispondesse: ahi per lui! alle sue spalle era rimasto solo il vuoto. Ministri, ammiragli, ciambellani e cortigiani, al primo segnale, ossia al primo acuto di Gelsomino, si erano precipitati nelle loro stanze a cambiarsi d'abito: gettavano a terra senza complimenti gli splendidi costumi che avevano portato per tanti anni, tiravano fuori di sotto il letto la vecchia valigetta con i loro vestiti da pirati e brontolavano:
— Se faccio a meno della benda nera sull'occhio, potrò parere uno spazzino del municipio.
Oppure:
— Se non mi metto l'uncino in fondo alla manica della giacca, nessuno mi riconoscerà.
In compagnia di Giacomone erano rimasti solo i due servitori che avevano la mansione di aprire e chiudere le vetrate del balcone, e anche adesso che i vetri erano crollati tenevano in mano rispettosamente le maniglie e ogni tanto, con i pizzi delle maniche, le lucidavano.
— Andate anche voi, — sospirò Giacomone, — ormai tutto crolla intorno a me.
Difatti in quei momento stavano scoppiando le mille lampadine del lampadario. Gelsomino, quel giorno, faceva sul serio.
I servitori non si fecero pregare: camminando all'indietro e inchinandosi ogni tre passi raggiunsero la porta delle scale, fecero dietrofront, e per arrivare in basso più presto scivolarono sulla ringhiera.
Giacomone rientrò nella sua stanza, si tolse il costume da rè e si infilò un vestito da cittadino qualunque che aveva comperato per girare in incognito tra la folla (ma poi non se l'era messo, e tra la folla aveva preferito mandarci gli spioni). Era un vestito marrone, adatto per un cassiere di banca o per un professore di filosofia. Come stava bene con la parrucca arancione! Purtroppo bisognava levarsi anche quella, che era conosciuta più della corona reale.
— La mia bella parrucca! — sospirò Giacomone. — Anzi le mie belle parrucche!
Aprì il famoso armadio e le vide tutte in fila, pronte come teste di marionette prima dello spettacolo. A quella tentazione Giacomone non seppe proprio resistere: ne afferrò una dozzina e le cacciò nella valigia.
— Le porterò con rne in esilio, mi aiuteranno a ricordare questi tempi felici.
Scese le scale, ma mentre i suoi cortigiani le avevano scese fino in cantina, e qui si erano infilati nelle fogne come topi, Giacomone preferì uscire nel suo bel parco. Anzi, suo un bel niente: ma bello, verde, profumato.
Giacomone respirò ancora una volta quell'aria reale, poi aprì una porticina che dava su un vicolo, si accertò che nessuno lo vedesse, fece un centinaio di passi e si trovò in piazza, in mezzo alla folla che applaudiva Gelsomino.
Così pelato e vestito di marrone nessuno poteva riconoscerlo: con la valigia, poi, sembrava un viaggiatore di commercio.
— Forestiero, eh? — gli domandò subito un tale, battendogli allegramente una mano sulla spalla. — Venga, venga anche lei a godersi il concerto del tenore Gelsomino! È quello là, vede? Quel giovanottino che ha l'aria di un corridore ciclista, insomma, che non gli si darebbero due soldi. Sente che voce?
— Sento, sento, — borbottò Giacomone. E fra sé aggiunse: «E vedo…»
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