Paolo Villaggio - Mi dichi

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Secondo voi "kibbutz" è un’espressione usata dalle contadine di Alberobello quando sentono bussare alla porta del trullo? "Venerea" si dice di donna bellissima e diafana? "Prostata" di persona sdraiata a terra, a faccia in giù, in atto di adorazione? "Kandinsky" è un dolce nazionale ungherese? E, passando al latino,
significa "il mio mento sembra quello di un negro"?
"tenere le mani all’ altezza delle ascelle"?
"perdio, che macchina!"?
Allora avete bisogno di questo
un saggio tanto divertente quanto impietoso, scritto da una delle più grandi voci umoristiche della nostra storia. Villaggio ci fa ridere e riflettere sull’ italiano scritto e quello parlato, la neolingua degli SMS e dei computer, i congiuntivi degli accademici e il linguaggio degli intellettuali di sinistra.
Così l’ inventore di Fantozzi torna a fustigare, esaltare, fotografare l’ italiano medio. Inteso, stavolta, come lingua.
In sovraccoperta:
Paolo Villaggio ha scritto oltre trenta libri, gli ultimi dei quali sono
(Feltrinelli, 2008), Sione
(Mondadori, 2009) e
(Mondadori, 2010). Ha vinto il Premio Città di Vigevano e due volte il Premio Flaiano.

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Entra senza bussare la cameriera filippina: «I signori chiede besogno de aiuto?».

Il padrone di casa: «Che cazzo vuoi, cretina!?».

«Desculpame, credevo che cuscus ha fatto strano effetto a ospiti.»

«Mavaffanculo, scema! Chi è iscritto a parlare ora?»

Si alza una femminista di quarantadue anni, ancora vergine: «Anche la Gestalttheorie non dà mai accesso alla casualità psichica…».

«Ma che cazzo dici!? La fenomenologia fa parte del problema… Guarda che tutti i miraggi che vanno dai giochi sessuali alle ambiguità morali…»

Il vecchio, quasi dormiente, con gli occhi chiusi: «Voi donne siete dei contenitori di sperma, perché è in funzione di questo ritardo che la masturbazione assume il suo valore di riconoscimento…».

Rientra la filippina con un guardiano notturno: «Me dovete scusà, ma li vicini de casa m’hanno chiamato, pecche j’è venuta la paura che a quarcuno j’è partita ‘a brocca».

Tutti ridono felici. E il metronotte: «Allora me ne vado tranquillo».

L’anoressica va a vomitare, lascia la porta aperta e urla: «Solo l’ analisi la mobilizza! Ma sempre in un transfert che non può essere contenuto dalla frustrazio…»; il dormiente tira una scarpa verso la porta del cesso: «Mavaffanculo, scema! Parla come mangi».

E la serata finisce qui.

In libreria

Gli italiani, generalmente, entrano nelle librerie solo sotto Natale. In casa hanno pochi libri, mentre i direttori, tutti gli onorevoli e i capi-cosca per le feste vengono sommersi dai così detti “libri da tavolo”. Sono libri di foto insfogliabili, storie delle città di Milano o di Firenze. Volumi enormi, pesantissimi. A Torino un direttore di banca ha cercato di leggere a letto una monumentale Storia di casa Savoia con una copertina di bronzo istoriato. Al mattino l’ hanno portato da un medico legale per l’ autopsia. Gli italiani non leggono più, perché rimangono fino alle due di notte a cambiare canale di fronte alla televisione. Le librerie per loro sono un ambiente ostile, temono di essere obbligati a comprare libri, o di essere interrogati da una commissione di commessi.

In una libreria semideserta sulla porta c’è uno un po’ timoroso: «Scusi, disturbo? Posso entrare?». Il titolare: «Avanti, avanti! Lei è il padrone qui!». Lo va a prendere per un braccio: «Un caffè?».

«No, veramente io… vorrei…»

«Un libro, spero! Ha già un’idea?»

«Sì…» Ha la lingua cartonata, tira fuori dalla tasca un biglietto che gli cade per terra. Il proprietario si china di colpo per raccoglierlo e gli scappa un peto leggerissimo: «Dunque, spostiamoci da qui che c’è poca luce… Eccoci, qui si respira… No… voglio dire… ci si vede meglio».

Il cliente muove a fatica la lingua di cartone, legge sul foglietto: «Il… gi… giardi… il giardino dei Finti continui…».

«Ma… non è il titolo giusto!»

«Non lo so, il biglietto lo scrivette il dottor Perelli, che sta nel mio pianerottolo, una volta sono entrato e ho visto che c’aveva molti libri. E allora c’ho chiesto un consiglio, perché voglio cominciare a leggere. E lui m’ha scritto il biglietto.»

«Sì, ho capito, però ha sbagliato. Ma ha ragione il suo vicino, si capisce che è un uomo di cultura, lei deve assolutamente leggere…» Si volta, sale su una scaletta insidiosissima, afferra un libro: «Eccolo! Il giardino dei Finzi-Contini!».

Il cliente a disagio: «No, per favore, Perelli m’ha scritto “dei Finti continui”. Sa, ha un carattere di merda, non vorrei che poi s’incazzasse perché ho cambiato idea».

Dalla cima della scala, col libro in mano: «Si fidi, le ha consigliato il capolavoro di Giorgio Bassani!».

«No no, la ringrazio, devo prima controllare col dottor Perelli» ed esce. Quando è in strada sente da dentro il negozio, attutito dai vetri, un urlo agghiacciante: «Porca di quella…» e un rumore sordo di legno e ossa frantumate. Mentre il titolare è sul pavimento, entra con grande arroganza un allevatore di cani da battaglia, molto ricco. Si guarda in giro, urla: «C’è nessuno qui? Siete tutti morti?».

Da dietro il bancone sente un flebile lamento: «Aiutatemi… quella scala maledetta, è la terza volta… Temo di essermi fratturato il femore».

Il canista: «Ma da dove parla, vacca troia! C’ho fretta!».

«Sono qui, dietro il banco, che desidera?»

«Non è per me, che odio i libri, è che l’ onorevole Baldoni m’ha chiesto… Aspetti un attimo… La vita di… di… Giovanna… d’Arcore.»

Da dietro al bancone un lamento penosissimo: «Ho capito signore, scusi ma non mi posso alzare. La vita di Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orléans! Un’eroina francese».

«Ma che cazzo dice!? Credo che sia stata l’ amante di Berlusconi!»

«Sto morendo dissanguato… Si fidi, è la famosa santa francese, io non mi posso muovere e se lo deve andare a prendere…»

«E lei se lo vadi a prendere in culo! Io me ne vado. Lei è un pigro ed è per questo che la cultura italiana è caduta così in basso.» Ed esce senza salutare.

I congiuntivi degli accademici

Eccovi lo spaccato di una tragica vicenda nella quale è stato coinvolto un gruppo di noti accademici dell’ Università di Pisa. [1] Questa sezione dell’ Università di Pisa ha chiesto al ministero dell’ Istruzione il titolo di “Scuola Normale”. Un sottosegretario fiorentino, certo Lapo Lapi, gli ha concesso solo l’ attributo di “Scuola Anormale”.

Il 2 novembre 1938 si commemora in Aula Magna la scomparsa del professor Mauro Mancini Torriani. È una buia giornata: nubi nere coprono il cielo e, ovviamente, tuoni, fulmini, lampi e saette. Manca la luce. Gli accademici, tutti anziani, sordi e quasi ciechi, si riconoscono annusandosi voracemente.

Si alza a parlare il Rettore Magnifico, Giuseppe Terraciano Maratta: «Chiarissimi…»; dal fondo: «Luce!»; è la voce della professoressa di lingua italiana, Maria Marini Malotti, unica donna presente.

Il Rettore: «Scusatemi colleghi, di cui intuisco la presenza dal forte odore di malga alpina, la Malini Maletti…».

Voce di donna: «Malotti, scemo!».

«Scusatela, è una donna e quindi un animale inferiore, e con la sua interruzione la Malini Malsani…»

Voce di donna: «Razzista! Stronzo!».

Il Magnifico, con un sorriso di superiorità: «Questo contenitore di sperma mi ha fatto perdere il filo. Aiutatemi, dov’ero rimasto?».

Dal fondo buio dell’ aula voci di speranza di molti accademici: «Aveva finito!.. Esatto, è stata una commemorazione memorabile!».

Il professor Franco Mannaroni Turri: «Anche se un po’ lunga…».

La Malotti: «Basta così, ci vediamo allora fra due mesi a commemorare il Rettore».

Il Rettore: «Fermiiii! Le porte sono state sapientemente bloccate. Dov’ero rimasto?».

Dalle prime file: «Non lo saprai mai!..».

E il Mannaroni Turri: «Arrangiati, vecchio imbecille!..».

Il Rettore: «Vi ringrazio per la stima. Sono disorientato, ho perso totalmente il filo, ma per evitare il pericolo Marini Marotti…».

Voce di donna: «Coglione!».

Si accendono miracolosamente le abbaglianti luci dell’ aula. Mormorii di protesta da tutto l’ emiciclo: «Vigliacchi! Lasciateci dormire in pace! Culattone!».

«Grazie, molto umani! Ma per nuocervi mi butterò a improvvisare: ignobili colleghi, pezzi di merda — lo penso e non lo dico — voglio ricordare in questa luminosa giornata…» Fischi, la scarpa sinistra del bidello lo colpisce violentemente in pieno naso. Applauso fragoroso, mentre il Terraciano Marotta scompare dietro la cattedra. L’uditorio si avventa disordinatamente per uscire dalle finestre.

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