Paolo Villaggio - Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda

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Paolo Villaggio

VITA, MORTE E MIRACOLI DI UN PEZZO DI MERDA

Sono le tre del mattino nella mia casa bianca sul mare, alle Bocche di Bonifacio, in Corsica.

È una magnifica notte senza luna.

Il faro di Capo Pertusato illumina, a intervalli regolari, il soffitto della mia stanza.

L'acqua è immobile, non una bava di vento, solo l'odore del mare. Non è una notte normale, questa è la mia grande notte, perché è l'ultima della mia vita.

Maura è addormentata vicino a me: la guardo e provo uno slancio di grande affetto. Sorrido, perché nel suo volto c'è sempre l'espressione di bambina che ho tanto amato.

È il momento del distacco.

Le bacio la fronte e il suo odore mi fa tornare a una notte lontana, quando le ho illuminato il viso con un bicchiere pieno di lucciole.

È il 10 agosto di tantissimi anni fa. Ora sono a Genova, in un boschetto di pitosfori sulla spiaggia di San Giuliano, in corso Italia. Anche questa notte il mare è piatto, non c'è la luna, ma centinaia di lucciole. E i pitosfori sembrano alberi di Natale.

Lì vicino c'è una baracchetta di legno dove vendono pezzi di cocco e si può bere della gazzosa squisita. Prendo un bicchiere di vetro, lo riempio di lucciole, lo capovolgo sul palmo della mano sinistra e, con quella lanterna magica, illumino il viso di mia moglie, che ha quindici anni. E solo in quel momento, per la prima volta e a quella luce speciale, noto una cosa che di giorno non ero mai riuscito a vedere: tante, tantissime piccole efelidi sul suo naso.

Sono sempre stato ossessionato dall'idea di capire se un momento che sto vivendo è un momento felice. Vi confesso, a distanza di molti anni, che quello è stato il momento più felice della mia vita.

* * *

Ora sono volato lontano, a quel viaggio in Messico con Vittorio Gassman, sua moglie Diletta e Maura. Eravamo arrivati dopo un lungo percorso a Cuernavaca. A metà strada, in un posto che si chiama Taxo, una vecchia india si è quasi buttata sul cofano della nostra Buick, agitando nelle mani due iguane mostruose: «Es bueno corno pollo, senor! Un dolar como propina!».

«Ok, ok…»

«No hay problema! Voy a poner las iguanas en el trac del coche!»

Arriviamo alla Mananita di Cuernavaca che il sole è tramontato. La Mananita è un albergo fantastico, è il più bell'albergo di tutto il Messico.

L'arrivo di Gassman è un evento.

Portieri, impiegati del ricevimento, camerieri, cameriere, tutti a far circolo intorno a lui e ad applaudire: «The Great Gassman! El grande actor!».

E un facchino: «Senor Gassman, yo voy a tomar las valijas nel coche».

Gassman lo ferma imperioso: «No! Vado io! Faccio da me, grazie».

Un po' d'imbarazzo in tutta la hall. In uno strano silenzio, Gassman esce nella notte. Apre il baule della Buick e, al buio, affonda le mani alla ricerca delle valigie.

Noi siamo dentro in attesa: da fuori, arriva un urlo agghiacciante!

Escono in molti ed ecco, portato a spalla come Amleto, the Great Gassman, bianco come un cencio. Sono in sei, lo depositano sul banco del portiere e qui scoppia un applauso.

Lui è un uomo di teatro, l'applauso lo sveglia e, mettendosi seduto, dice: «M'ero scordato delle iguane!».

Un'ora dopo stiamo cenando nel grande giardino incantato della Mananita; ci sono le lucciole, che non vedevo da molti anni.

Mi ha sorpreso allora, alle spalle, una sensazione di grande felicità.

«Che strana felicità» ho pensato. «Certo, il posto è bellissimo, gli amici speciali, ma questa felicità è del tutto immotivata.» Poi ho incontrato gli occhi sorridenti di Maura, seduta di fronte a me, che a voce bassa, quasi non volendo farsi sentire dagli altri, mi ha sussurrato: «Lo senti? E il profumo del pitosforo!».

Eccolo il motivo della felicità! Ho riacchiappato l'odore della mia Il profumo del pitosforo è un odore leggero. Non è invadente come la magnolia o il gelsomino, ma direi un odore aristocratico, va e viene, come se fosse un miraggio di profumo.

Gli odori colpiscono l'inconscio: prima arriva l'emozione, poi il ricordo di un momento felice. Ecco, di quegli anni lontani mi piacerebbe poter avere, in una zona nascosta di casa, dietro una tenda in soffitta, tante boccette di vetro scrupolosamente sigillate.

Chiamerei quella raccolta «Odoroteca».

Su ogni boccetta c'è scritto, per esempio: «Odore del pitosforo», «Odore del mare sotto la pioggia», «Odore della cucina di mia nonna nel 1939».

Io, di notte, come tutti i vecchi, non riesco a dormire e deambulo sinistramente per la casa completamente nudo. Sembro un lemure del Madagascar. [1] Il lemure è un agghiacciante esemplare di mammifero delle foreste fluviali dell'isola. E onnivoro, ha un ventre mostruoso e piccoli artigli al posto delle mani. Mi dirigo, spinto da un istinto suicida, verso il frigo. Lo apro e una luce gelida illumina l'animale, che non si limita a vedere tutto quello che mangia ma, purtroppo, mangia tutto quello che vede.

Pensate che in una notte senza luna, divorato da un'ansia devastante, ho sradicato con violenza dal freezer una mattonella di trippa surgelata e l'ho scaraventata per terra con un urlo da samurai. Poi, a fatica, mi sono chinato a succhiare con sinistri mugolii di goduria delle stalattiti di trippa, guardato con grande pietà dai miei quattro cani labrador. I vicini, in questi casi, tirano anche scarpe contro la mia finestra: «Basta! Maiale! Vai a dormire… Fatti ricoverare in un manicomio navale! Così ti suicidi!».

Purtroppo lo so, e vengo investito da una grave forma di mancanza di felicità.

È in quelle occasioni, allora, che mi piacerebbe andare verso l'Odoroteca: mi guardo in giro con fare circospetto, alzo la tenda nera e prendo una boccetta sigillata. Apro quella «Odore di uno scoglio battuto dal sole in una giornata di agosto». È un odore vagamente putrescente. Sentirei la voglia invincibile di tuffarmi nel mare trasparente d'allora, vicino al moletto dei Bagni Lido. Ora nuoto sott'acqua a occhi aperti, scambiando occhiate con i pesci di scoglio. Poi riemergo lentamente, all'altezza della marea, fra le patelle, i cespugli di alghe rossastre e i granchi che ti vengono a spiare.

Se fossi molto depresso, stapperei la boccetta in cui c'è scritto «Odore di Maura a quindici anni».

Il pezzo di merda del titolo sono io. Mi definisco spesso così, ma soltanto per essere accettato.

Fin da ragazzo avevo problemi nei rapporti con gli altri e, forse per difesa, diventavo aggressivo usando tecniche rudimentali per essere offensivo.

Quando incontravo delle compagne di scuola, per esempio durante lo struscio serale in via XX Settembre, fingevo di non riconoscerle, attraversandole da parte a parte come se fossero invisibili. Con chi conoscevo meno, invece, adottavo una tecnica perfida: storpiavo leggermente il nome. «Buongiorno, Sturchi» a chi si chiamava Storchi. E un certo Franco Pazzi, per anni, l'ho salutato con: «Ciao, Pupazzi!».

Tutto questo mi rendeva cordialmente antipatico.

Eppure, pur non piacendomi questo aspetto del mio carattere, ero stranamente fiero della mia spiacevolezza.

Sono passati molti anni da allora, e adesso che sono vecchio cerco invece di sembrare simpatico. Mi riesce bene del resto, non faccio nessuna fatica, ma ho un grande rimpianto per quel lato premeditato della mia personalità.

Voi, giovani lettori caduti nella trappola della cultura cattolica che vuole i vecchi migliori dei giovani, non sapete che i vecchi sono, in realtà, profondamente risentiti e cattivi.

Li avete mai osservati sugli attraversamenti pedonali di certe strade trafficate, come viale Parioli a Roma? Dove sciamano giovani in motoretta e dove, d'estate, le giovanette sfrecciano con l'ombelico scoperto e con quelle magliette aderenti che evidenziano i capezzoli?

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