Paolo Villaggio - Mi dichi

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Secondo voi "kibbutz" è un’espressione usata dalle contadine di Alberobello quando sentono bussare alla porta del trullo? "Venerea" si dice di donna bellissima e diafana? "Prostata" di persona sdraiata a terra, a faccia in giù, in atto di adorazione? "Kandinsky" è un dolce nazionale ungherese? E, passando al latino,
significa "il mio mento sembra quello di un negro"?
"tenere le mani all’ altezza delle ascelle"?
"perdio, che macchina!"?
Allora avete bisogno di questo
un saggio tanto divertente quanto impietoso, scritto da una delle più grandi voci umoristiche della nostra storia. Villaggio ci fa ridere e riflettere sull’ italiano scritto e quello parlato, la neolingua degli SMS e dei computer, i congiuntivi degli accademici e il linguaggio degli intellettuali di sinistra.
Così l’ inventore di Fantozzi torna a fustigare, esaltare, fotografare l’ italiano medio. Inteso, stavolta, come lingua.
In sovraccoperta:
Paolo Villaggio ha scritto oltre trenta libri, gli ultimi dei quali sono
(Feltrinelli, 2008), Sione
(Mondadori, 2009) e
(Mondadori, 2010). Ha vinto il Premio Città di Vigevano e due volte il Premio Flaiano.

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6) 3 + 3 / 3 + 5 = 7

7) 18 x 2–4 + 2 = 34

8) 42–12 + 100 + 500 = 630

Il divino linguaggio dei messaggini

Con un accanimento feroce tassisti, medici, notai, poliziotti, carabinieri, sacerdoti pedofili, conduttori televisivi, sarti alla moda e intellettuali di sinistra si scagliano contro quello “stupido” linguaggio inventato dai giovani con i loro telefonini.

«È demenziale» ululano, «privo d’inventiva, di questo passo va a remengo la lingua italiana!»

Ma quale lingua italiana? Quella della televisione? Dei giornali sportivi e delle interviste ai ciclisti? Dei politici con i capelli tinti? L’Italia, ormai, è un paese dove tutti bofonchiano una lingua morta.

Finalmente, sotto i nostri occhi, è nata una nuova lingua: quella dei messaggini.

Questo linguaggio, quasi cifrato, all’ inizio rispondeva all’ esigenza di risparmiare tempo, spazio e soldi. Poi, finalmente, si è aggiunto un fatto nuovo e affascinante: la creatività. Chi lo usa, ormai, s’ingegna nell’ inventare di volta in volta degli ideogrammi sempre più sintetici e, soprattutto nei messaggi amorosi, sempre più divertenti, personalizzati e quasi poetici.

Una volta, invece, nella stagione degli amori, la primavera, i finti innamorati, che come obiettivo volevano solo sodomizzare delle possibili fidanzate, usavano un italiano mieloso e prolisso. Protagonista principale delle lettere d’amore la luna, di vari colori: rossa, blu, d’argento che luccica sul mare, marinara, piena, a quarti e, nei paesi arabi, a forma di falce. Sullo sfondo, le stelle. Nel tragico clima della Pianura Padana, grigio e pieno di nebbia, i colori della campagna, dei boschi e del cielo diventavano straordinari, la temperatura dolcissima ma, soprattutto, cambiavano gli odori.

Come raccontavano tutti gli odori quei poveracci? Perché a parole è difficile; non si possono incidere, né fotografare. Sarebbe bello, magicamente, risentirli tutti.

Ce n’erano tanti e con delle sfumature diversissime l’ una dall’ altra: l’ odore del mare, che col passare delle stagioni cambiava colore. L’impercettibile profumo dell’ erba, dei fiori, che andava dall’ aristocratico del pitosforo a quello del gelsomino, del glicine, della lavanda, del rosmarino, o a quello quasi stordente della magnolia.

In primavera, dunque, questi aspiranti sodomizzatori decidevano di innamorarsi. Scrivevano delle lettere d’amore interminabili: sei fogli di carta Fabriano, una stilografica Omas di bachelite color arlecchino, un pennino similoro. Gli innamorati si chiudevano nelle stanze ed entravano in una specie di trance ipnotica.

Questi assatanati di sesso avevano l’ atroce tentazione di profumarle. Poi le piegavano, le imbustavano, le chiudevano, le nascondevano in una tasca dei pantaloni e uscivano di casa.

Saltellavano allegri e sembravano dei malati di mente, perché qualcuno parlava da solo. Arrivavano alla buca delle lettere, leccavano con cura il francobollo e si eccitavano come muli.

Passavano quattro giorni infruttuosamente.

Intanto “lei” tutte le mattine domandava: «C’è posta per me?».

Il quinto giorno il postino, in bicicletta, con il suo borsone si fermava sotto casa: «Signorina! C’è una lettera per lei. La metto nella buca?».

«No, per carità! Me la dii.»

Le ragazze non sapevano dove andare a leggere senza essere viste. In un bar? Troppa gente. Sotto una magnolia? Posti sempre pieni di lettrici di lettere d’amore. Quasi tutte si chiudevano in cesso. Aprivano lentamente per paura di strappare la busta. Poi leggevano la firma e avevano quasi un arresto cardiaco. Poi cominciavano a leggerla quasi tutta a gran velocità, per individuare le frasi dove lui scriveva “Ti amo”. Poi respiravano profondamente, leggera tachicardia, un’altra pausa, rileggevano la firma e ricominciavano da capo. So di molte che le hanno rilette anche dieci volte per mezz’ora, mentre il padre bussava alla porta: «Che cazzo succede? Sto scoppiando!». Lei nascondeva la busta sotto il golfino, tirava inutilmente l’ acqua e usciva.

Certo che i messaggini provocano lo stesso tipo di felicità, ma le prime lettere d’amore quelle ragazze le conservavano in un cassetto segreto per tutta la vita. Le legavano con dei nastri e non le facevano leggere a nessuno. Con il passare del tempo le conoscevano a memoria. Può capitare che in certe serate malinconiche, sulla soglia dei cinquantanni, vadano ad aprire quel cassetto, ne prendano una e la rileggano, sorridendo dolcemente.

La mia conclusione è che i messaggini sono sì geniali, sintetici, veloci, senza retorica e ti assalgono con lo stesso tipo di euforia e felicità ma — è la rivincita di un vecchio signore che viene da quegli anni lontani — gli SMS scompaiono, mentre quelle lettere, anche se un po’ ingiallite, sono la prova tangibile di uno dei momenti più felici della vita.

Mi è capitato di dover rispondere a un messaggino. Ho fermato una ragazza carina per strada: «Mi scusi, mi dà una mano?».

Lei: «Cosa devo scrivere?».

«Be’… dovrei… cominciare con la luna… le stelle… poi ci voglio mettere l’ odore del mare…»

La ragazza sorride: «Mi scusi, devo andare a scuola. Posso fare io? Numero!»

«Di casa dove abito?»

«Del cellulare…»

«Non me lo ricordo. Però ce l’ ho scritto sul palmo della mano.»

La ragazza sorride: «Ho capito» e rapidamente scrive “Ta”.

Io: «Ma che vuol dire?».

Lei si volta e, andando via: «Ti amo!».

Per noi vecchi ci vorrebbe un ufficio speciale nel quale delle giovani donne ti traducono in un messaggino un’intera lettera d’amore.

Entro: è un ufficio molto moderno, musica in sottofondo. Vado a uno sportello e consegno il telefonino.

«Desidera?»

«Devo mandare una lettera d’amore.»

«Dica…»

Mi manchi… tantissimo… Lo sai… che sei speciale per me, sei la migliore. Domani prendo il treno e… per una settimana staremo insieme… Il pensiero mi manda… su di giri. Tanti baci amore!

La ragazza velocissima scrive e, con voce fredda e professionale: «Tenga».

«Quant’è?»

«Due euro, sono quindici parole…»

Esco col telefonino in mano, mi avvicino a un vigile della mia età: «Me lo legge?».

Lui dà un’occhiata. C’è scritto: “Mmt+ lo sai ke 6 sxme, 6la+ dom prendo il 3no e x 1 se# starins. Il pens mi ma sdg. Xxx am!”.

Mi restituisce il cellulare: «Che fa, mi prende per il culo?».

La neolingua dei computer

Un giovanotto, purtroppo di cinquantasei anni, ha subito molestie da un politico omosessuale molto potente. Ma alla fine, grazie a una poderosa raccomandazione, è stato assunto in un ufficio di informatica.

Primo giorno di lavoro, un lunedì mattina: il quasi vecchio entra in uno stanzone. Mani spugnate, ciabatta turca al posto della lingua, ansima leggermente. Non c’è ancora nessuno, solo trentotto tavolini con degli schermi spenti e delle tastiere. Sono le 8.20, si siede a un tavolo laterale dove c’è scritto il suo nome. La cosa lo rassicura. Alle nove in punto il trillo violentissimo di un campanello lo sveglia di soprassalto. Entra una mandria silenziosa di giovanotti sui venticinque anni. Non si salutano, prendono posto, accendono gli schermi e si avventano sulle tastiere. Da un tavolo lontano un grido feroce: «Il mouse… è scomparso il mio mouse!».

Il giovanotto di cinquantasei anni balza in piedi e si precipita fuori dalla porta.

L’usciere di cinquantotto anni, seduto a un tavolinetto in corridoio: «Che succede?».

Il giovanotto: «È scappato un topo… fin da piccolo…».

L’usciere sorride: «Sono qui da cinque anni. All’ inizio per me è stato un inferno».

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