AAVV - En torno a la economía mediterránea medieval

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Este libro es un reconocimiento y homenaje a la trayectoria científica y académica del profesor Paulino Iradiel, así como a su importante contribución a la historia económica y social de la Edad Media, justo cuando llega a los 75 años de edad y se cumplen también 40 de su llegada a Valencia. El libro reúne las aportaciones de quince historiadores españoles, franceses e italianos, entre los que se encuentran desde quien fue uno de sus maestros, José Ángel García de Cortázar, a su primer alumno, José María Monsalvo Antón, ambos en Salamanca; algunos de sus compañeros de generación en España, como Juan Carrasco, Alfonso Franco, José Enrique López de Coca, Antoni Riera Melis y J. Ángel Sesma Muñoz; una nutrida representación de medievalistas italianos, con Alberto Grohmann, Luciano Palermo, Giuliano Pinto, Giampiero Nigro, Amedeo Feniello, Gabriella Piccinni y Franco Franceschi, y la francesa Elisabeth Crouzet-Pavan, cuya área de estudio ha sido siempre Venecia y el norte de Italia. Con él, el Departamento de Historia Medieval y Ciencias y Técnicas Historiográficas de la Universitat de València quiere expresar su agradecimiento a quien ha sido su director durante tantos años y, siempre, un estímulo intelectual potente y un referente cercano del trabajo científico y académico bien hecho.

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Va inoltre sottolineato con fermezza che, se per effettuare delle valide analisi storico-economiche in relazione all’età medievale è indispensabile che il ricercatore si doti di una salda preparazione economica, è però altrettanto necessario che lo stesso abbia una buona formazione culturale in campo politico-istituzionale, sappia correttamente analizzare fonti in latino o nei vari idiomi volgari che andarono gradatamente affermandosi, si doti di una buona conoscenza paleografica e diplomatica. Solo grazie a questa duplice formazione culturale (economica e umanistica) il ricercatore sarà in grado di dominare le fonti, di porre alle stesse le domande utili a poter soddisfare gli elementi di fondo del tema che vuole indagare.

L’importanza fondamentale dello studio sistematico delle fonti di archivio nell’analisi storica e particolarmente nella storia economica ha spinto schiere di studiosi fino a tutti gli anni ‘70 e agli inizi degli ‘80 del sec. XX, come si è detto, a effettuare lavori estremamente minuziosi, che spesso avevano però il difetto di concentrarsi solo su tempi brevi, spazi limitati e avvertivano poco l’esigenza dell’analisi comparativa spazio/temporale. Anche agli studenti che chiedevano una tesi di laurea in storia economica i docenti indicavano fonti di archivio ancora inesplorate sulle quali impegnarsi nello studio di un qualcosa che doveva avere il carattere di originalità, proprio in quanto non già analizzato da altri studiosi. Il che comportava necessariamente, che, malgrado il lungo lavoro sulle fonti archivistiche, gli studi si concentrassero su tempi e spazi di breve durata.

Ma, come notava già nel 1969 Fernand Braudel: 14

La recente rottura con le forme tradizionali della storiografia del XIX secolo […] è andata a beneficio della storia economica e sociale, e a detrimento della storia politica. […] Ma soprattutto c’è stata un’alterazione del tempo storico tradizionale. Un giorno, un anno potevano sembrare ieri delle buone misure ad uno storico politico. Il tempo era come una somma di giornate. Ma una curva dei prezzi, una progressione demografica, il movimento dei salari, le variazioni del tasso di interesse, lo studio (più immaginato che attuato) della produzione, una serrata analisi della circolazione richiedono più ampie misure, un’altra scala.

Lavori pur di grande interesse come quelli di Sapori, di Luzzatto, di Melis e dei loro allievi, tanto per fare solo degli esempi di autori italiani noti a tutti (o almeno a quelli della mia generazione), si riempivano di trascrizioni di documenti d’archivio, di dati, di tabelle, a volte erano perfino quasi solo composti di tabelle –come alcuni volumi pubblicati da Giuffré sotto la direzione di Luigi Dal Pane–; 15 gli stessi autori disquisivano spesso sull’esigenza di effettuare analisi per totalità dei dati disponibili o di far ricorso a campionature, più o meno matematicamente determinate. 16 Gli storici economici, a differenza degli storici generali, posero in luce sempre più l’esigenza di disporre di serie quantitative utili a far luce su costi, ricavi, prezzi, salari, andamenti di produzioni e di cicli commerciali. Come sottolineava Witold Kula, ciò che distingueva il lavoro dello storico economico da quello dello storico generale era che per il primo «La rilevazione di un singolo prezzo di una data merce non solo non è interessante, ma è addirittura incomprensibile, se non può essere inserito in una serie di altri rilevamenti di prezzi, della stessa e di altre merci, aventi una certa continuità temporale». Questo, sempre secondo il grande storico polacco, «ha notevoli conseguenze per il lavoro dello storico economico, che si presenta assai più impegnativo e che consente minori possibilità in ordine alla pubblicazione di raccolte di fonti. Tanto più che queste raccolte non possono tendere all’esaurimento del materiale, ma solamente tentar di raggiungere un elevato grado di rappresentatività e tipizzazione. (Aggiungendo) Non si eliminerebbe, pertanto, la necessità, per il futuro ricercatore, di risalire di nuovo ai documenti originali». 17

Ma il problema di fondo fino a tutti gli anni ‘80, come ebbe a sottolineare acutamente C.M. Cipolla, 18 fu che

La scuola economico giuridica fu nel complesso molto storica, molto giuridica ed inadeguatamente economica nel senso che si distinse per lo studio preciso delle istituzioni giuridiche, ma mancò di esplicitare adeguatamente i paradigmi economici che poneva alla base della interpretazione dei fatti economici, i quali paradigmi quando il lettore si fa sforzo di enuclearli dal contesto della narrazione li trova il più sovente rozzi e spesso inconsistenti. Alphons Dopsch, Henry Pirenne, Gioacchino Volpe, Marc Bloch, Armando Sapori, per non citare che i nomi più famosi, appartennero tutti a questa corrente cui appartenne sostanzialmente anche Gino Luzzatto con una caratteristica però tutta sua: che lui si era interessato vivamente alla polemica metodologica tedesca della fine dell’0ttocento, che lui, nella sua indefessa operosità, aveva letto e continuava a leggere i maggiori contributi degli economisti teorici.

A partire proprio, però, dagli anni ‘70 e dagli ‘80, dopo i movimenti di studenti e lavoratori e i conseguenti sostanziali mutamenti in campo economico e sociale, da più parti s’iniziò a teorizzare che la storia in tutte le sue declinazioni non fosse più rilevante. Si ritenne che solo la storia strettamente contemporanea o almeno quella successiva alla rivoluzione industriale potesse ancora essere utilmente indagata.

La società contemporanea, con le sue rapidissime modificazioni che fanno sì che ogni elemento diventi rapidamente obsoleto, sembrò in gran parte aver dimenticato l’importante funzione della storia. Solo il presente e il suo continuo mutare apparve dotato di interesse. Il passato, particolarmente per le giovani generazioni, iniziò a divenire privo di attrattiva e di presunta utilità. Un famoso piccolo testo di Jean Chesneaux, del 1976, ebbe il rivoluzionario titolo: Du passé faisons table rase? A propos de l’histoire et des historiens . Scriveva Chesneaux: 19

Dans la lutte contre l’ordre établi, refuser le passé et ses images d’oppression est une tendance naturelle. […] Mais le refus du passé n’exclut pas le recours au passé. […] La volonté de libérer le passé, de s’appuyer sur lui pour affirmer l’identité nationale, est aussi forte dans les mouvements de libération du tiers monde au XX esiècle. […] Il faut, et cela bouleverse plus encore nos habitudes, prendre conscience du fait que la réflexion historique est régressive, qu’elle fonctionne normalement à partir du présent, à contre-courant du flux du temps, et que c’est sa raison d’être fondamentale.

Spinti dai bisogni e dalle esigenze della società industriale, che iniziava a porre in luce i suoi elementi interni di crisi, l’attenzione degli storici si rivolse a studiare in campo sociale la condizione delle masse lavoratrici, in campo più strettamente storico-economico si tese ad abbandonare gli studi sul medioevo e l’età moderna e ci si andò sempre più a interessare di indagini sull’industria, sul mercato, sulle variazioni e modificazioni della tecnologia, della finanza, del sistema creditizio, sulle fonti energetiche, sulle modificazioni climatiche, sulle variazioni del Pil. Tutto ciò comportò l’esigenza di far ricorso nell’analisi a una serie di fonti diverse, in primo luogo alle fonti statistiche prodotte da enti pubblici e privati sia in ambito nazionale sia internazionale, fonti ricche di dati quantitativi che consentissero raffinate elaborazioni matematiche.

Se fino a tutti gli anni ‘70, gli studiosi facenti capo a qualsiasi branca disciplinare in ambito storico, che all’epoca venivano considerati come appartenenti alle «giovani generazioni», erano stati fortemente influenzati dalla storiografia francese collegata alla Scuola delle «Annales», proprio fra fine anni ‘70 e inizi ‘80 l’interesse dei «nuovi» storici economici si indirizzò verso le tematiche e le metodologie affermatesi già negli anni ‘60 negli U.S.A e in area anglosassone in genere. 20 Come ebbe a sottolineare C.M. Cipolla, «In questi paesi [quelli di cultura anglosassone] una cultura economica più diffusa, una abitudine al più corretto uso di termini economici (in buona parte coniati nella lingua inglese) nel linguaggio quotidiano, fecero sì che anche gli storici economici che non avevano una particolare preparazione economicista fossero sovente in grado di impiantare discorsi che non solo storicamente, ma anche dal punto di vista della logica economica, non prestavano il fianco a critiche severe. E fu appunto […] negli Stati Uniti che si verificò la reazione più drastica al tradizionale modo di fare la storia economica». 21 Notava criticamente lo stesso Cipolla che questi nuovi storici economici: 22

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