Così come è insufficiente spiegare il successo del made in Florence riferendosi alla sola produzione di lusso, è anche insufficiente evocare soltanto il ruolo della cultura delle élites. Sembra quasi ovvio richiamare l’attenzione sul fatto che Umanesimo e Rinascimento ebbero una influenza forte e positiva, ma è altrettanto vero che anch’essi furono il frutto di una realtà economica e sociale dinamica e innovativa. Almeno quel terzo della popolazione sopra citato era partecipe di questa vita culturale e lo era a modo suo, apportando elementi di innovazione basati su un pragmatismo e un gusto che si stava evolvendo. Si deve pensare la città di quegli anni come un crogiuolo di individui che appartenevano a classi diverse e al cui interno la contaminazione tra diversi modelli di vita era forte. 17 La contaminazione, quell’inesausto conflitto della imitazione, era un elemento che rompeva gli schemi della tradizione medievale; per fare un elementare esempio, anche le abitudini al parziale riuso di abiti concorrevano a mettere in discussione certi conformismi. «Poca vertù, ma fogge ed atti assai!» lamentava Franco Sacchetti 18 nel rimpiangere la vita tranquilla e sostanzialmente immobile dei tempi passati. Come ho accennato, ciò era chiaramente visibile nei piccoli manufatti del quotidiano, come in certe suppellettili d’osso o di legno anziché di avorio, realizzate dal medesimo artigiano. Questo fenomeno di contaminazione era ancora più visibile nei modelli alimentari; essi cambiavano nella tipologia dei prodotti, nelle tecniche di preparazione e perfino in alcuni servizi, come quelli del cuoco di osteria che preparava cibo da asporto per persone appartenenti ai ceti più diversi. 19 Nel Seicento Giulio Cesare Croce avrebbe rielaborato una versione medievale delle vicende di Bertoldo confermandone la funzione didattica. L’astuto contadino sarebbe morto per non poter mangiar rape e fagioli, perché non gli era stato possibile mantenere comportamenti consoni al suo stato; Firenze due secoli prima stava mettendo in discussione queste regole.
Altro elemento che deve essere maggiormente valutato riguarda ciò che oggi definiremmo valorizzazione del capitale umano. Molti ragazzi giovanissimi ambivano a entrare in bottega: era il modo per muoversi nella scala sociale; prima però si andava a scuola fino a 10-12 anni. Dal Catasto del 1480 emerge che nella Firenze di 50-55.000 abitanti, ben 1.031 ragazzi nell’età tra 10 e 13 anni andavano a scuola. 20 Tra di loro vi era chi, dopo la scuola di grammatica, seguitava nella bottega d’abaco, molto diffusa in Toscana sin dai tempi di Leonardo Fibonacci. In essa si insegnava la matematica applicata all’economia. I maestri erano quasi sempre noti studiosi i quali sottolineavano che la formazione offerta sarebbe stata «sufficiens ad standum in apotecis artificis». 21 Gli scolari imparavano cose anche complesse: non solo le operazioni di base, le frazioni, l’uso dei numeri arabi, i pesi e le misure; studiavano il calcolo del tasso d’interesse e le rateizzazioni, la tenuta di un libro di entrate e uscite e tutti i principali problemi monetari, perfino il tema dell’alligazione.
Insomma, la comunità cittadina tentava di offrire un livello di formazione che non avremmo immaginato e che non si interrompeva con la scuola ma continuava in bottega, con la molta cura e severità che ho riscontrato in tanti scambi epistolari tra direttori di imprese del tempo.
Tutte queste condizioni aiutano anche a spiegare l’esistenza di un altro fattore, quello delle diffuse capacità imprenditoriali. È un tema introdotto da Federigo Melis che non si stancava mai di insistere sulla necessità di fare storia economica ponendosi idealmente alla scrivania del dirigente di allora. 22 In questi ultimi decenni si sono potuti approfondire molti aspetti di quel management.
Anzitutto gli imprenditori fiorentini mostravano una forte vocazione all’innovazione: fino dagli ultimi decenni del Trecento, il pragmatico adattamento di molti strumenti del commercio provocò effetti fortissimi. Si potrebbero fare molti esempi ma mi limito a due, studiati da Melis. Il primo riguarda le innovazioni nel settore bancario e la graduale creazione di una banca moderna che offriva alle imprese lo scoperto di conto e che usava l’assegno di conto corrente. 23 Il secondo attiene al settore dei trasporti dove la differenziazione dei noli marittimi consentì un forte ampliamento della circolazione di beni meno ricchi. 24 Sembra quasi inutile sottolineare che quegli atteggiamenti mentali erano il frutto di una tensione rivolta alla espansione della propria impresa e alla riduzione dei costi di transazione; era la stessa tensione che diventava creatività nella produzione degli oggetti.
Accanto alla propensione all’innovazione troviamo una cultura orientata agli investimenti produttivi e al rischio. Francesco di Marco Datini, morendo nel 1410, lasciò oltre centomila fiorini ai poveri di Prato. Di quella cifra il 65 % era rappresentato da investimenti a rischio: quote di partecipazione in società di vario tipo e di varia forma; un altro 25 % era costituito dagli investimenti pubblici, spesso obbligatori, in termini di sottoscrizione delle cartelle del debito pubblico; solo il 10 % rappresentava gli immobili di questo imprenditore. 25 Forse il Datini si mostra come un caso piuttosto raro; resta il fatto che, anche osservando le denunce catastali dei fiorentini, il reinvestimento dei guadagni nelle attività produttive sembra essere significativo. Sono convinto che questa particolare propensione al reinvestimento degli utili conseguiti potesse anche derivare dalla influenza degli ordini mendicanti che condannavano con forza il peccato di avarizia. Vicende e dibattiti che mi fanno venire in mente le osservazioni di Thomas Piketty sugli effetti negativi della accumulazione eccessiva della ricchezza e sulla sua errata distribuzione. Molti predicatori francescani e domenicani spiegavano nei loro sermoni che il denaro nella società dei credenti era come il sangue nel corpo mistico di Cristo: fermare il sangue, peccare di avarizia, significava uccidere la comunità dei cristiani. 26 Forse per Datini, e per altri come lui, il continuo reinvestimento della propria ricchezza non era solo dettato dall’ansia del guadagno, poteva essere un modo di interpretare quelle prediche e, assieme alle continue elemosine, una risposta alle mille questioni irrisolte con la propria coscienza.
Per concludere questo mio tentativo di individuare i precedenti del fattore Italia nella Firenze rinascimentale vorrei riprendere brevemente il tema del dinamismo per accennare ad altro aspetto fino a ora poco considerato: quello del sistema di relazione tra le imprese, sia produttive che commerciali. Ovviamente non mi riferisco ai naturali meccanismi di confronto, di imitazione e di concorrenza tra aziende presenti sul medesimo mercato. Esisteva un nesso collaborativo, un vero e proprio network tra le aziende artigianali di base, piccole o grandi che fossero, e i grandi mercanti. Da questi ultimi la bottega otteneva un input fatto dagli stimoli ricevuti in contesti lontani, raccolti attraverso la conoscenza e lo studio dei mercati, stimoli e informazioni sui gusti presenti nelle grandi città europee e del Mediterraneo e su prodotti e tecniche poco conosciute. I manufatti, che rappresentavano delle novità, venivano accolti dai produttori i quali avevano cura di adattare tutto al gusto raffinato della realtà locale. Potremmo fare tantissimi esempi ma mi limito a ricordare il caso delle maioliche ispano-moresche. Le ceramiche che circolavano nel Mediterraneo durante il XIV secolo erano fabbricate da artigiani arabi di Manises e Paterna. 27 I mercanti fiorentini cominciarono ad acquistarne per vedere se potevano trovare smercio; da Firenze giunsero molteplici input per cui i fabbricanti arabi cominciarono ad adeguarsi al gusto dei committenti fin tanto che, appresa la tecnica, i fiorentini iniziarono a produrne per proprio conto.
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