«Top!» chiamò Cyrus Smith.
L’animale diede un balzo alla chiamata del padrone.
«Sì, andrà Top!» disse il giornalista, che aveva compreso l’idea dell’ingegnere. «Top passerà dove noi non passeremmo! Porterà a GraniteHouse le notizie del recinto e ritornerà con quelle di GraniteHouse.»
«Presto!» rispose Cyrus Smith. «Presto!»
Gedeon Spilett aveva rapidamente strappato una pagina dal suo taccuino e vi scrisse queste righe:
«Harbert ferito. Siamo al recinto. Sta’ in guardia. Non abbandonare GraniteHouse. I deportati sono comparsi nelle vicinanze? Rispondi per mezzo di Top».
Questo laconico biglietto conteneva tutto quello che Nab doveva sapere e chiedeva contemporaneamente a lui tutto quel che i coloni avevano interesse di conoscere. Il biglietto fu piegato e attaccato al collare di Top in modo molto visibile.
«Top! Cane mio,» disse allora l’ingegnere accarezzando l’animale «Nab, Top! Nab! Va’, va’!»
A queste parole, Top si mise a saltellare. Comprendeva, indovinava quanto si esigeva da lui. La strada del recinto gli era nota. In meno di mezz’ora poteva percorrerla ed era sperabile, che dove né Cyrus Smith né il giornalista avrebbero potuto avventurarsi senza pericolo, Top invece, correndo fra le erbe o nei boschi, sarebbe passato inosservato.
L’ingegnere andò alla porta del recinto e spinse uno dei battenti.
«Nab! Top, Nab!» ripeté ancora una volta l’ingegnere, stendendo la mano in direzione di GraniteHouse.
Top si slanciò fuori e disparve quasi subito.
«Arriverà!» disse il cronista.
«Sì, e tornerà, il fedele animale!»
«Che ora è?» domandò Gedeon Spilett.
«Le dieci.»
«Fra un’ora può essere qui. Spieremo il suo ritorno.»
La porta del recinto fu di nuovo chiusa. L’ingegnere e il giornalista rientrarono in casa. Harbert era profondamente assopito. Pencroff manteneva le compresse sempre umide. Gedeon Spilett, vedendo che in quel momento non c’era niente da fare, s’accinse a preparare qualche cibo, pur sorvegliando attentamente la parte del recinto addossata al contrafforte, dalla quale era possibile una aggressione.
I coloni attesero il ritorno di Top non senza ansietà. Un po’ prima delle undici Cyrus Smith e il giornalista, con la carabina in mano, stavano dietro alla porta, pronti ad aprirla al primo latrato del cane. Essi erano certi che se Top avesse potuto arrivare felicemente a GraniteHouse, Nab l’avrebbe immediatamente rimandato.
Erano là, ambedue, da dieci minuti circa, quando una detonazione rimbombò, subito seguita da ripetuti latrati.
L’ingegnere aperse la porta e, vedendo ancora un resto di fumo nel bosco a cento passi di distanza, fece fuoco in quella direzione.
Quasi subito Top balzò nel recinto, di cui venne impetuosamente richiusa la porta.
«Top! Top!» esclamò l’ingegnere, prendendo fra le braccia la buona, grossa testa del suo cane.
Un biglietto era attaccato al collo dell’animale e Cyrus Smith lesse queste parole, tracciate con grossolana scrittura da Nab:
«Niente pirati nei dintorni di GraniteHouse. Non mi muoverò. Povero signor Harbert!»
CAPITOLO VIII
I DEPORTATI NEI PRESSI DEL RECINTO — SISTEMAZIONE PROVVISORIA «CONTINUAZIONE DELLA CURA DI HARBERT» I PRIMI GIUBILI DI PENCROFF «RIPENSANDO AL PASSATO» CIÒ CHE RISERVA L’AVVENIRE «LE IDEE DI CYRUS SMITH IN PROPOSITO»
E così i deportati erano sempre là: spiavano il recinto ed erano decisi a uccidere i coloni uno dopo l’altro! Non c’era che da trattarli come bestie feroci. Ma bisognava prendere grandi precauzioni, giacché i miserabili avevano in quel momento il vantaggio della posizione, vedendo senza essere veduti, potendo attaccare di sorpresa senza essere sorpresi.
Cyrus Smith sistemò le cose in modo da poter vivere nel recinto, le cui provviste, del resto, potevano bastare per un tempo abbastanza lungo. La dimora di Ayrton era stata fornita di tutto il necessario alla vita, e i deportati, spaventati dall’arrivo dei coloni, non avevano avuto tempo di metterla a sacco. Probabilmente, come fece notare Gedeon Spilett, le cose erano andate così: i sei deportati, sbarcati nell’isola, s’erano tenuti sul litorale sud e, dopo aver girato intorno alla penisola Serpentine, non essendo disposti ad avventurarsi fra le boscaglie del Far West, avevano raggiunto la foce del fiume della Cascata. Quivi giunti, rimontando la riva destra del corso d’acqua, erano arrivati ai contrafforti del monte Franklin, fra i quali era naturale che cercassero qualche rifugio e non avevano tardato a scoprire il recinto allora disabitato. Molto verosimilmente, s’erano installati là, aspettando il momento di mettere in esecuzione i loro abominevoli disegni. L’arrivo di Ayrton li aveva colti di sorpresa, ma erano riusciti a impadronirsi dell’infelice e… il seguito s’indovinava facilmente!
Adesso i deportati — ridotti a cinque, è vero, ma bene armati — s’aggiravano per i boschi e avventurarvisi equivaleva a esporsi ai loro colpi senza possibilità né di pararli, né di prevenirli.
«Aspettare! Non c’è altro da fare!» ripeteva Cyrus Smith. «Quando Harbert sarà guarito, potremo organizzare una battuta generale nell’isola e aver ragione dei deportati. Questo sarà l’oggetto della nostra spedizione, e al tempo stesso…»
«La ricerca del nostro misterioso protettore» aggiunse Gedeon Spilett, completando la frase dell’ingegnere. «Oh! Bisogna confessare, mio caro Cyrus, che questa volta la sua protezione ci è mancata, e nel momento stesso in cui ci era più necessaria!»
«Chi sa!» osservò l’ingegnere.
«Che cosa volete dire?» chiese il giornalista.
«Che non siamo al termine delle nostre pene, caro Spilett, e che il potente intervento forse avrà ancora l’occasione di manifestarsi. Ma non si tratta di questo. La vita di Harbert prima di tutto.»
Era la più dolorosa preoccupazione dei coloni. Alcuni giorni passarono e lo stato del povero giovinetto non era, fortunatamente, peggiorato. Ora, guadagnar del tempo nella malattia era già molto. L’acqua fredda, mantenuta sempre a temperatura conveniente, aveva impedito l’infiammazione delle ferite. Parve, anzi, al giornalista, che quell’acqua, un po’ solforosa — il che si spiegava con la vicinanza del vulcano — avesse un’azione più diretta sulla cicatrizzazione. La suppurazione era molto meno abbondante e, mercé le cure incessanti che gli si prodigavano, Harbert ritornava alla vita e la sua febbre tendeva a decrescere. Era, del resto, sottoposto a una dieta severa e, di conseguenza, la sua debolezza era e doveva essere estrema; ma i decotti non gli mancavano e il riposo assoluto gli faceva un gran bene.
Cyrus Smith, Gedeon Spilett e Pencroff erano diventati abilissimi nel medicare il giovane ferito. Tutta la biancheria dell’abitazione era stata sacrificata. Le ferite di Harbert, coperte di compresse e filacce, non erano strette, né troppo né poco, in modo da portarle alla cicatrizzazione senza determinare reazioni infiammatorie. Il giornalista dedicava a queste medicazioni una cura straordinaria, ben sapendo quale ne fosse l’importanza e ripetendo ai suoi compagni, quello che la maggior parte dei medici riconoscono volentieri: che è più raro, forse, vedere ben fatta una medicazione che un’operazione.
In capo a dieci giorni, il 22 novembre, Harbert stava sensibilmente meglio. Aveva cominciato a prendere un po’ di cibo. Il colorito ritornava sulle sue gote e i suoi occhi buoni sorridevano ai suoi infermieri. Conversava anche un poco, malgrado gli sforzi di Pencroff, che parlava sempre lui per impedirgli di prendere la parola e raccontava le storie più inverosimili. Harbert l’aveva interrogato in merito ad Ayrton, ch’era stupito di non veder presso di sé, sapendo che doveva trovarsi al recinto. Ma il marinaio, non volendo affliggere Harbert, s’era limitato a rispondere che Ayrton aveva raggiunto Nab, allo scopo di difendere GraniteHouse.
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